Una malinconica ansia di libertà nel racconto “Anna, il prete e io” del giovane Luca Manni
Tra le repressioni più care al potere politico e clericale – anzi forse la “prediletta” – vi è senz’altro quella dell’eros, del piacere sessuale, della gioia dei nostri corpi nella loro pura fisicità. Nel seguente racconto di Luca Manni, traspare la denuncia di tale violenza. Del resto, essa ha una logica: chi gioisce della propria sessualità è un essere felice, quindi non è un docile burattino e non si presta all’oppressione e alla guerra. Il potere ha bisogno di masse di infelici per perpetuare i suoi meccanismi di vessazione e prevaricazione. (r.t.)
Appeso a una sigaretta, guardo distratto il paese fuori dalla finestra. Il campanile dell’unica chiesa svetta imponente fra i tetti scuri e fa a gara col sole per arrivare più in alto. Giù nel fresco della sagrestia don Pietro prepara la messa del pomeriggio con il rigore che gli è proprio.
Lo conosco bene quel vecchio prete, ha nutrito lo spirito di tutti noi giovani adulti di oggi fin da quando eravamo in fasce, e continua a farlo tuttora coi bambini e i ragazzi. Lo trasferirono in paese poco prima che io nascessi; arrivava dalla città, dove si diceva fosse stato beccato a fornicare (il termine che usa mia madre) con una puttana di quattordici anni, poco dopo averla battezzata tra le smorfie dei benpensanti. Ma nonostante lo scandalo iniziale, i pettegolezzi nel corso degli anni sono scemati, adagiandosi al suolo come foglie secche dopo la tempesta.
Fin da piccolo mi sono chiesto perché, se andare con le puttane è una pratica così diffusa, è generalmente ritenuto, a seconda dei casi, tra lo sconveniente/riprovevole e il sacrilego/disgustoso: mi hanno sempre fatto credere (o me ne sono convinto da solo?) che sia la società a stabilire cos’è giusto e cos’è sbagliato, che la normalità sia data da quanto un certo comportamento è diffuso e che la Legge (civile o morale) dovrebbe assecondare l’evoluzione di questi comportamenti dandole ordine e coerenza.
Ora tutte le certezze che mia madre ha cercato di trasmettermi si trasformano in dubbi e domande, forse perché lei stessa non era sempre convinta di quello che mi diceva, forse perché quando voleva comunicarmi un’importante regola di vita la sua voce assumeva un tono innaturale, ostentatamente serio, che io percepivo inconsciamente. Devotissima cattolica mia madre quanto ateo materialista io, in fondo le differenze tra noi sono meno di quelle che si potrebbe pensare: entrambi sentiamo la terra tremare sotto i piedi, portiamo dentro la pancia l’eterno conflitto tra istinto e intelletto, siamo umorali e imprevedibili. Solo che io so di non avere e di non volere punti di riferimento, che mi parrebbero costruzioni fittizie per prendermi in giro, mentre lei ne ha bisogno come dell’aria. La Chiesa e Dio sono il bastone a cui si aggrappa per non cadere durante i terremoti della coscienza, e in fondo ne è consapevole anche lei, e le va bene così, è la soluzione meno dolorosa ai tormenti della vita.
Fin dai tempi del catechismo ho trovato la dottrina cattolica ipocrita e incoerente, erano troppe le “eccezioni alla regola”, troppe le incongruenze con la parola di Cristo, che a mio avviso predicava tutt’altro. Durante le lezioni davo segni di insofferenza sempre più evidenti finché si è deciso di non mandarmici più, non prima di avermi comunicato e cresimato, “che se un giorno cambiasse idea…”.
Ha contribuito in parte alla mia precoce presa di posizione contro l’autorità ecclesiastica la vicenda di don Pietro, appresa da compagni di scuola e confermata poi da mia madre anni dopo. Sono stato molto colpito dalla questione e ricordo di averci riflettuto per delle nottate intere. Ero piccolo e cose di questo genere colpivano di brutto la mia immaginazione.
Rimuginavo: “Un prete non si può sposare perché la famiglia toglierebbe tempo alla sua attività di servo del signore, ma perché non può neanche fare sesso così, ogni tanto? Forse perché il sesso fuori dal matrimonio è proibito… dev’essere così… oppure perché è già sposato con Dio, come dice la nonna, e quindi farlo con qualcun altro sarebbe adulterio… e tutti gli altri preti del mondo che sono anche loro sposati con Dio? Non sono gelosi gli uni degli altri?”.
Più avanti con l’età mi è sorto un senso di repulsione e di schifo, non nei confronti di don Pietro e della sua fornicazione, ma verso la falsità di una dottrina che umilia, mortifica e nega la naturalità e le esigenze del corpo e, pur capendo e giustificando ampiamente l’atto impuro in sé, mi fa quasi rabbia che don Pietro stesso lo rinneghi e probabilmente se ne vergogni come di nient’altro, nel nome di una costruzione artificiale di valori insulsi e contraddittori.
Mentre i miei pensieri vagano così e si confondono con le spire del fumo uscendo galleggiando dalla finestra aperta, Anna esce dalla doccia e compare sulla soglia della mia stanza, un asciugamano legato intorno ai fianchi che la copre fino alle caviglie, la pelle umida e liscia e i capelli neri lunghi e ondulati che le scendono sulla schiena.
E’ una visione, più bella di quelle che i giochi della mente possono produrre nel sonno, il suo corpo e il sorriso beffardo esercitano un’attrazione irresistibile su chiunque se la trovi davanti o, allo stesso modo, invidia e odio nei traditi e nei delusi. Si stende di fianco a me, prende un fiammifero e una sigaretta dal mio pacchetto e comincia a fumare con gusto. Mi guarda e mi sorride senza una parola, in quegli occhi infiniti sono convinto di leggere il suo pensiero:
“Sto bene con te e tu stai bene con me, forse mi ami, ma sai perfettamente che io sono di tutti e non sono di nessuno, sono dell’amore stesso e sono di chi mi dà amore, con uno sguardo svelto o un timido bacio, per un minuto o un’intera notte, con affetto e passione, senza legami esclusivi e senza rimorsi”.
“Forse ti amo, Anna, ma quel sublime sentimento che mi suscitano le tue labbra e il tuo seno perfetto, la tua voce e le espressioni ambigue… è tanto meraviglioso quanto è terribile la sensazione che mi dà sapere che non sarai mai mia e che altri mille uomini come me possiedono il tuo corpo e la tua mente. Immaginavo che l’amore fosse limpido e trasparente, solo felicità e annullamento reciproco e ora invece temo che questo tormento sia la sua unica umana declinazione”.
La prima volta che l’ho vista è stato qualche anno fa, appena arrivata in paese, la sua luce mi ha folgorato come il sole che squarcia le nuvole e inonda la terra, la sua freschezza un bagno in un ruscello di montagna. Ci siamo conosciuti con una scusa banale e da allora mi stupisco ogni giorno di poter provare emozioni tanto travolgenti. Ho iniziato a non poter fare a meno di lei e a non avere altri pensieri al di fuori di “Con chi sarà adesso? Cosa starà facendo?”.
La cerco continuamente, spesso senza trovarla. Ogni tanto dopo aver fatto l’amore rimaniamo stesi sul letto, senza parlare, altre volte scherzando su sciocchezze o raccontandoci i nostri passati. E’ stata costretta a trasferirsi qui perché una donna follemente gelosa la minacciava pesantemente rendendole la vita impossibile, continuando anche dopo che Anna aveva deciso di rompere i ponti col marito adultero. Non poteva denunciarla per non mandare nei casini lui e l’unico modo per sottrarsi a quella tortura era scappare. L’ultimo scherzetto che le ha tirato la folle è stato romperle tutti i vetri delle finestre di casa con delle pietre. Di conseguenza la scelta di cambiare aria.
In realtà dice che non le ha pesato troppo lasciare la città perché dopo venticinque anni nello stesso posto con le stesse persone si era un po’ stancata. Le è dispiaciuto solo lasciare sua madre, che non ha potuto seguirla per non perdere il discreto posto di lavoro che aveva da poco trovato. Qui sta bene, anche se percepisce chiaramente l’astio che molta gente prova per lei. Ormai ci è abituata dice, non le dà più fastidio.
La accompagno a casa, il mio turno per oggi è finito. Passeggiamo abbracciati nell’asciutto tardo pomeriggio mentre comincia a soffiare una leggera brezza e il frinire dei grilli perde un poco vigore. Ancora per dieci minuti posso far finta che Anna sia la mia donna, immagino di poterla amare completamente e di condividere con lei ogni istante del giorno e della notte, di vivere sotto lo stesso tetto per il resto della vita…
Vengo distolto bruscamente dalle mie fantasie quando Anna esclama:
“Che cazzo succede?!”.
Accelera il passo e io la seguo mentre scorgo in lontananza che la sua casa è circondata da decine di persone, qualcuna in divisa. Appena ci vedono, molte signore del paese, che naturalmente conosco bene, cominciano a inveire contro Anna: “Ladra schifosa! Lurida ladra!”, poi anche “Maledetta puttana!”.
Penso: “Puttana sì, ma ladra non mi risulta”.
Gli sbirri le si fanno incontro e le chiedono informazioni di circostanza tipo: “E’ casa sua questa?” (Io tra me e me: “Lo sai benissimo che è casa sua, cretino, ci vieni due volte alla settimana, il martedì e il giovedì quando stacchi dal lavoro”).
Si fanno aprire la porta mostrando il mandato di perquisizione mentre osservo le donne accanite scambiarsi cenni di approvazione come se stessero segretamente sperando in qualcosa. Gli sbirri fanno entrare anche alcune delle signore e chiedo a quelle che sono rimaste fuori cosa sta succedendo, di cosa è accusata Anna, mentre già si sta formando nella mia testa il quadro della situazione, ma ancora non voglio crederci. Mi rispondono tutte insieme e tutte eccitate, come se non stessero più nella pelle:
“La tua amichetta è una ladra schifosa!”.
“Ruba dalle case quando va a fare i servizietti ai mariti…”.
“Alla Pina e alla Gertrude gli ha rubato i gioielli!”.
“Alla Carla gli ha preso duecentomila dal comodino!”.
Io, quasi incredulo: “L’avete incastrata…”.
Quelle se la prendono anche con me e la mia razza blaterando che siamo degli smidollati e dei maiali, rendendo così esplicito che il loro gesto insano è stato dettato dall’odio e dalla gelosia per Anna e la sua attività. Tra la rabbia e la confusione che mi gonfiano i pensieri cerco di anticipare cosa accadrà adesso, mi sforzo di trovare una soluzione perché Anna non venga condannata, di come fare per dimostrare che è stato tutto frutto di un piano diabolico e perverso delle cornute gelose. Il complotto sembra riuscito: Anna viene scortata al commissariato dopo che in casa le sono stati trovati gli oggetti che in precedenza le tradite avevano descritto meticolosamente e che hanno poi dichiarato essere di loro proprietà.
Il processo dura pochi giorni, un’eternità… Cerco di stare vicino ad Anna quanto posso, la qual cosa aiuta sicuramente più me che lei perché la paura di perderla è una certezza a cui non riesco e non voglio rassegnarmi, e in fondo è come se cercassi di assorbire ogni singolo istante che passo con lei per avere un po’ di autonomia in più quando me l’avranno portata via. La condanna di Anna colpisce più che lei stessa decine di “smidollati e maiali” come me, che perdono in un colpo solo un fantastico svago, una presenza importante, un’amica, un’amante e per molti una ragione di vita.
I litri di lacrime che non ho versato in quest’ultima settimana e che continuo a versare… Barcollo tra una pena lancinante che mi lacera dentro e una rabbia spasmodica per l’ingiustizia che sento di subire in prima persona. Sento come se mi stessero punendo di aver trovato un motivo per stare al mondo in una donna che per loro non è nemmeno degna di essere chiamata così, ma solo puttana, caricando la parola di disprezzo ogni volta che la pronunciano, puttana, puttana… Mi viene tolta la vita, l’essenza, il tormento e la gioia che mi rendono umano, che muovono la mia mente e il mio corpo, che agitano la mia coscienza come il mare nella bufera e che mi fanno sentire di esistere e di essere un uomo.
Il carcere più vicino è proprio nella città che cinque anni fa ci ha regalato Anna, in realtà liberandosene come di un peso, e che adesso è costretta ad accoglierla sotto le inediti vesti di delinquente, almeno stando a quello che sostiene il giudice.
Siamo tutti con lei, ognuno tristemente chiuso in se stesso, da chi dopo una notte le ha chiesto di sposarla a chi ha rinunciato a tutto pur di stare con lei, chi l’ha avuta centinaia di volte e chi non è mai riuscito a scrollarsi di dosso il timore reverenziale verso quella creatura divina, sognando di essere abbastanza audace da avvicinarla. Gli sbirri l’accompagnano sul treno e noi li seguiamo come un corteo funebre invadendo silenziosamente tre lunghi vagoni. Non ci si guarda in faccia per non dover scegliere un’espressione tra quella della complicità, facendo prevalere il sentimento che nasce dal dolore comune, o quella dura e ostile della rivalità tra bestie che convivono forzatamente nello stesso territorio ma che ambiscono a occuparlo da sole.
Il viaggio non finisce mai, pur non durando più di un paio d’ore, l’aria è resa pesante dal caldo e dai respiri profondi e sofferti e dai pensieri plumbei che fluttuano sopra le nostre teste. Il mio desiderio di giustizia si è prima trasformato in voglia di vendicarmi verso quelle cagne che hanno organizzato il complotto; poi, placati l’istinto e i nervi, hanno prevalso la rassegnazione e un cupo sconforto di fronte al corso degli eventi.
Ora ho bisogno di metabolizzare la dipartita di Anna, di abituarmici, di farmene una ragione e credo che ce la farò. Forse mi farà addirittura bene perdere questo punto di riferimento, sarò costretto a trovare qualcosa o qualcun altro a cui dedicarmi interamente, e ciò mi farà crescere. L’esperienza di questi anni è stata straordinaria, ma ormai era diventata come una droga a cui non avrei mai potuto rinunciare, mi soffocava e mi toglieva la lucidità per affrontare tutti gli altri aspetti della vita. Sì, forse è meglio così; eppure, se provo a immaginare la mia vita senza di lei, mi gira la testa e la disperazione si impossessa del mio cervello…
Gli sbirri caricano Anna nella macchina che è venuta a prenderla e la portano al carcere senza fretta, mentre io corro a prendere un autobus con alcuni compagni d’avventura e altri cercano di fermare i taxi. Quando arriviamo trafelati davanti alla prigione, l’immagine che mi si presenta davanti mi commuove e abbasso la testa per discrezione. Anna è tra le braccia di una donna che intuisco essere sua madre, entrambe singhiozzano mentre gli agenti cercano dolcemente di separarle, un po’ imbarazzati.
Ma la mia attenzione viene distolta da quello che dopo qualche istante riconosco essere don Pietro. Cammina storto, barcollando, come ubriaco perso. Mi avvicino e gli metto un braccio intorno alla vita sorreggendolo.
“Accompagnami a casa, per favore” mi sussurra.
Prendiamo il treno per tornare in paese, mentre don Pietro, sconvolto, non riesce a proferire parola, con la faccia affondata nelle mani, il respiro affannato che non si calma.
Penso ad Anna: non l’ho neanche salutata, volevo stringerla un’ultima volta all’aria aperta, in carcere non sarà la stessa cosa. Già so che si romperà la magia che era strettamente legata ai nostri luoghi, a casa mia e alla sua, alle stradine del paese, alla piazza e alle sue panchine, ai giardini dietro la chiesa e al baretto in centro. Mi dà fastidio sentire che non riesco a dedicarmi completamente al pover’uomo che mi siede accanto, che sicuramente sta passando un momento molto peggiore del mio, ma la malinconia e l’ologramma di Anna nella mia mente mi trascinano da un’altra parte, sul sentiero dei ricordi e di quello che sarebbe potuto essere ancora e non sarà. Mi sento un egoista per non riuscire a farmi coinvolgere del tutto dalla disgrazia di don Pietro, ma l’empatia in questo momento non è la mia dote migliore.
Per l’intero tragitto don Pietro rimane in silenzio, ma una volta arrivati al suo appartamento, di fianco alla chiesa, butta fuori tutta la sofferenza e lo sconcerto che ha covato nelle ultime ore e riversa su di me la sua atroce confessione:
“Ho sempre sentito di amare le donne almeno quanto amo Dio. E non ho mai creduto che lui le abbia create per indurci in tentazione. Anzi, le donne sono l’espressione più alta e nobile del creato, capaci di farti provare sensazioni meravigliose o farti cadere nell’abisso della disperazione. Mi sono innamorato di una ragazzina quando ero ancora in città e abbiamo avuto dei rapporti. La nostra relazione era innocente e pura, era così, benché dall’esterno potesse facilmente essere giudicata perversa e insana. Ma quando lei è rimasta incinta ci hanno scoperto e per non farmi passare guai peggiori mi hanno trasferito qui. Sono rimasto a lungo segnato da quell’episodio, mi tormentavo cercando di capire cos’era giusto e cos’era sbagliato, cercando le risposte nella Bibbia e nelle sue interpretazioni più illustri. L’amore per le donne non mi abbandonava e la carne è debole, anche per un sacerdote. Dopo tanti anni in cui sono riuscito a domare i miei istinti di essere umano, soffocandoli nella convinzione che un prete ha dei doveri morali da rispettare, ci sono ricaduto in pieno. Con Anna. Pur nel dramma di dover tradire i principi che credevo di aver saldamente assimilato e buttando al vento tanti anni di buon comportamento, quella ragazza mi ha travolto come un ciclone e non c’è stato nulla che potesse trattenermi dal desiderarla ardentemente. Così sono stato anche con lei, come tanti in questo paese, senza che potessi resistere al suo indicibile fascino e alla sua bellezza sopraffina. Anna mi ha sempre ricordato tanto la prima ragazza, quella della città, e mi sentivo legato a lei in maniera morbosa, come se ci fosse ben altro che la semplice attrazione. C’era in lei qualcosa che mi faceva impazzire, provavo un affetto quasi paterno, ma forse ho sempre inconsciamente cercato di respingere questa sensazione. Quando l’ho vista abbracciare quella donna davanti al carcere, ho capito il perché di quello strano sentimento… Quella era la ragazzina che ho messo incinta trent’anni fa, la madre di Anna”.
(Anna, il prete e io)
Luca Manni
L’autore del racconto appena letto è nato a Bologna nel 1983 e nel capoluogo emiliano ha fin qui vissuto (se si esclude una pausa di un anno ad Almerìa, in Andalucìa, con il progetto Erasmus). Si è laureato in Lettere e Filosofia al Dams Musica nel marzo 2007. La musica, infatti, è la sua prima passione, che negli anni si è concretizzata nel suonare il basso in diversi gruppi rock con amici. È attratto e affascinato dalla letteratura, un mondo infinito in cui sta cercando di trovare i propri percorsi, anche scrivendo di tanto in tanto qualche racconto e partecipando a concorsi letterari. Attualmente sta imparando e praticando il mestiere di dj, che per ora è la sua unica fonte di sostentamento.
IL COMMENTO CRITICO
Un racconto molto incisivo, quello scritto da Luca Manni.
Una storia che riporta certamente alla memoria la celeberrima canzone di De Andrè Bocca di rosa. Il breve racconto nasce direttamente dalle labbra del protagonista, un giovane “ateo e materialista”, profondamente innamorato di Anna, una ragazza di paese, semplice, sensuale e capace di suscitare l’indignazione dei più moralisti. Amata e venerata da tutti, diviene, per alcuni, un vero e proprio motivo di vita, per altri soltanto un passatempo, uno svago al quale dedicare qualche ora alla settimana, come per gli stessi “sbirri” che le metteranno le manette. Le accuse, mosse dalle “cagne” del paese, alla fine, la fanno rinchiudere dietro le sbarre, strappata anche dalle braccia della madre in lacrime.
Un racconto che ben si innesta nel presente numero di LucidaMente, dedicato alla dialettica oppressione/libertà. Da un lato il bigottismo, la repressione sessuale, le beghine di paese, dall’altro la voglia di vivere e di godere, la sensualità e l’eros, la bellezza femminile, la gioventù e la gioia. In mezzo, un opaco clima psicologico malinconico e intriso di pacata rassegnazione, entro il quale un po’ tutti sembrano vittime di un mondo contraddittorio, quasi accartocciato entro metafisiche, tetre epifanie.
È altresì una vicenda, quella narrata, che mischia sacro e profano, perché Anna non è desiderata solo dalla gente comune, ma anche da don Pietro, il parroco del paese, già reduce da una storia con una ragazzina, vicenda che aveva fatto discutere molto e aveva indotto il vescovo a trasferirlo in una nuova parrocchia, quella del paese dove, appunto, si svolge il racconto. Nelle ultime battute – con la sorprendente rivelazione finale – colmate dalle parole piene di lacrime del parroco, emerge tutta la debolezza dell’uomo, condizione indipendente dall’abito che si indossa.
Anche l’io narrante, follemente attaccato ad Anna, ma consapevole dell’impossibilità, per lui, di possederla veramente, dimostra tutta la propria fragilità: lui stesso che prima aveva criticato la madre perché considerava la Chiesa e Dio il bastone a cui aggrapparsi nei momenti più difficili, nel corso dei quali si ha bisogno di fortificare la propria coscienza, forse troppo debole.
Manni ha utilizzato un linguaggio rapido ed incisivo, che non esita a fare ricorso a metafore e figure retoriche, spese bene, che danno al racconto quel pizzico di artificio che lo rende piacevolmente fruibile dal lettore.
L’immagine: particolare de L’origine du monde (1866, Parigi, Museo d’Orsay) di Gustave Courbet (Ornans, 1819 – Vevey, 1877).
Marco Papasidero
(LucidaMente, anno IV, n. 38, febbraio 2009)