Dalla legge Delrio alle contraddittorie proposte leghiste e pentastellate: un excursus e qualche idea
Il governo Conte giudica un grossolano errore la trasformazione delle Province in enti di secondo livello. Infatti ha espresso l’intenzione di una profonda rivisitazione del testo unico degli enti locali (datato 2000) per una Nuova carta delle autonomie locali. L’intenzione del testo unico era quella di introdurre benefiche semplificazioni contabili e ordinamentali (con il superamento del rincorrersi di scadenze contabili e dell’obbligo di gestione associate, ecc.), nonché disegnare i nuovi confini delle rispettive competenze e degli organi di governo delle Città metropolitane e delle Province.
Facciamo un passo indietro. Ricordiamo che, fino alla legge 56 del 2014, le Province erano amministrate da organi eletti dai cittadini. Con la cosiddetta legge Delrio divennero enti di secondo grado i cui organi sono eletti dagli eletti dei Comuni, con compiti e risorse ridotti. Le conseguenze negative di tali scelte ricadono principalmente sulla gestione della viabilità (le strade provinciali sono 132.000 chilometri in tutta Italia) e delle scuole superiori. La richiamata legge 56 anticipava e prefigurava il successo del referendum costituzionale del 2016 (che prevedeva anche la soppressione delle Province), ma l’inaspettata risposta negativa degli elettori ha maggiormente evidenziato il pasticcio provocato da scelte affrettate, ambigue, incomplete e incongruenti con la dichiarata volontà di realizzare economie, economie concretizzatesi solo con la soppressione degli organi eletti e purtroppo con la riduzione dei servizi. Nel momento in cui si è costituito il tavolo tecnico-politico della conferenza Stato-Città, tavolo propedeutico all’emanazione di una legge delega al governo per la revisione del testo unico degli enti locali, si sono manifestate forti divergenze da parte dei due partners di governo.
Per semplificare, da un lato la Lega punta al ripristino dell’elezione diretta degli organi delle Province e delle Città metropolitane, giudicandoli enti essenziali per fornire servizi ai cittadini. Dall’altro lato i pentastellati propugnano l’abolizione delle Province giudicandole enti inutili e fonte di sprechi. Non pervenuta la posizione del Partito democratico, come sempre incapace di autocriticare una “sua” legge sbagliata che nemmeno l’esito positivo del referendum costituzionale avrebbe resa efficace. Ma le due sopra richiamate posizioni richiedono entrambe alcune specificazioni: l’abolizione delle Province, proposta dai pentastellati, deve passare attraverso la modifica costituzionale, essendo attualmente la Provincia ente locale ad autonomia costituzionalmente garantita.
Nel caso poi di successo referendario, sarebbe utile prevedere che le funzioni, beni, personale, ecc. (che non possono essere aboliti) siano o chiaramente destinati ad altri enti o destinati alle Regioni per una organizzazione complessiva territoriale sulla base anche del principio delle autonomie differenziate (altro capitolo indigesto ai M5s). La posizione della Lega, invece, non può esaurirsi solo con il ripristino dell’elezione diretta degli organi provinciali: sarebbe necessario ricollocare alle Province funzioni di vasta area, con le relative risorse, con la soppressione di enti, agenzie e organismi regionali, in modo che le Regioni stesse accentuino sempre più la loro vocazione legislativa. Si decida per un’opzione o per l’altra, piuttosto che lasciare immutata l’attuale situazione con il procrastinarsi di incertezze e disfunzioni che si ripercuotono negativamente sui cittadini.
Rimane il discorso sulle Città metropolitane: se devono essere simili alle Province, tanto vale cancellarle completamente dall’ordinamento locale; se, invece, devono essere titolari di compiti e funzioni maggiori e diversi delle Province, occorre predisporre una più precisa e specifica normativa mettendo in conto anche una serena valutazione sul numero eccessivo delle Città metropolitane stesse e dei propri confini. Infine, non sarebbe fuori luogo un approfondimento su due fattori: il numero troppo elevato di Comuni (5.500 Comuni con meno di cinquemila abitanti), da ridurre con l’introduzione di provvedimenti che obblighino o incentivino le loro unioni, propedeutiche alle fusioni; e un ragionamento sulle Regioni, perché, abolire una Provincia con 1.262.402 abitanti (Brescia) e mantenere una Regione con 308.493 abitanti (Molise) o con 126.202 abitanti (Valle d’Aosta), appare un non senso.
Franco Ecchia – Partito socialista italiano, Federazione di Bologna
(LucidaMente, anno XIV, n. 162, giugno 2019)