Coltivare a km zero piante e ortaggi dei migranti riduce l’inquinamento, genera lavoro e favorisce l’integrazione
Il cibo – e noi italiani lo sappiamo bene – è parte integrante di una cultura. Chi emigra, oltre ad abbandonare affetti e luoghi familiari, lascia anche una serie di sapori e alimenti che probabilmente non ritroverà nel nuovo Paese che lo accoglie; ecco perché, con l’aumentare dei migranti, in Italia è cresciuta la richiesta, e di conseguenza l’importazione, di prodotti dei loro luoghi di origine che non si trovano in commercio.
La curcuma arriva dal Perù, il gombo (detto anche okra) dall’Africa: per ridurre l’impatto sull’ambiente dovuto all’importazione di questi prodotti da così lontano, stanno nascendo in Italia progetti dedicati alla coltivazione di spezie e ortaggi non autoctoni. È il caso, per esempio, di Leone Contini, che ha realizzato un orto sperimentale per l’acclimatazione e la coabitazione di ortaggi provenienti da diverse parti del mondo all’interno dell’Orto botanico a Palermo, o del progetto Semìno, sviluppato a Bologna da Kilowatt, cooperativa Pictor, Local to you e Rescue A-B, centro studi della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna. In entrambi i casi si oscilla tra sostenibilità e inclusione: da un lato il tentativo di ridurre gli effetti sull’ambiente e la volontà di sperimentare nuove modalità di coltivazione, dall’altro la creazione di opportunità di incontro e di occupazione per migranti e richiedenti asilo.
Semìno è un progetto nato quasi per caso: un paio di anni fa Farouk, originario del Bangladesh e aiutocuoco a Vetro, il bistrot delle Serre dei Giardini Margherita a Bologna, ha chiesto un pezzo di terreno nel quale poter piantare alcuni ortaggi che non riusciva a trovare da noi; da lì, l’intuizione: perché non coltivare localmente, e secondo i principi dell’agricoltura biologica, alcune specie tipiche delle cucine dei migranti?
«Abbiamo messo insieme una rete di soggetti per produrre a km zero e con certificazione biologica», racconta Samanta Musarò, socia di Kilowatt e referente per Semìno, che prosegue: «Il progetto ci dà anche la possibilità di sperimentare modalità di coltivazione alternative. Per esempio, per alcuni prodotti abbiamo ridotto la quantità di acqua utilizzata, con l’obiettivo di testare se è possibile diminuire l’uso di questo bene prezioso – e sempre più scarso – per l’irrigazione. I risultati sono stati ottimi: le piante coltivate hanno mantenuto intatto il gusto; si è notata solo differenza nelle dimensioni, che sono risultate leggermente più piccole di quelle cresciute con più acqua». È in corso anche una sperimentazione sulla produzione di curcuma, della quale non esistono piantagioni in Italia, nonostante sia sempre più diffusa e richiesta, anche per utilizzi in campo medico. «Purtroppo, non abbiamo ancora potuto appurare i risultati» continua Musarò «perché la curcuma si raccoglie solo quando la pianta fiorisce e la fioritura si manifesta con il primo freddo, che però quest’anno sta tardando ad arrivare» [nonostante sia ormai autunno inoltrato… effetti del cambiamento climatico? Ndr].
La scelta dei prodotti da coltivare viene fatta in collaborazione tra i promotori del progetto: Kilowatt studia quali ortaggi e spezie siano più impiegati e richiesti dalle comunità migranti e quali abbiano le proprietà nutritive più alte. Tra questi prodotti, Rescue A-B seleziona quelli che hanno maggiore possibilità di adattarsi al nostro clima. Successivamente, si inizia la coltivazione in un terreno di Pictor, la prima cooperativa sociale ad aver aderito al progetto in un’ottica di inserimento lavorativo. Sì, perché Semìno ha anche un altro obiettivo: offrire nell’immediato occasioni di occupazione e, nel lungo periodo, opportunità di formazione imprenditoriale per migranti e richiedenti asilo del territorio.
Pictor ha già assunto un lavoratore tra di essi, Kilowatt è in contatto con Fondazione Grameen (che nel 2017 ha lanciato il progetto Social farming in the Appennines) per coinvolgere migranti che abbiamo intenzione di aprire una propria impresa nel settore agricolo: ad oggi, otto persone sono già state formate per lavorarvi e si stanno attivando percorsi specifici. Da gennaio 2019 aderiranno al progetto anche l’azienda agricola Floema e Horelilla, entrambe disposte ad assumere migranti o richiedenti asilo. Pare che l’agricoltura sia una via d’uscita dalla crisi per molti giovani (la stessa Floema ne è un esempio: i suoi fondatori sono tutti under 30); chissà se questa, insieme al cibo – simbolo di incontro, socialità e condivisione, soprattutto in Italia –, non diventi anche strumento di inclusione e integrazione, oltre che un modo per innovare le nostre abitudini alimentari. D’altra parte, pensandoci bene, la pizza, indiscusso orgoglio italiano, ha tra gli ingredienti principali il prodotto di una pianta che ci è arrivata dall’America.
Per maggiori informazioni sullo sviluppo del progetto Semìno visitate il sito www.semino.org o scrivete una e-mail a info@semino.org.
Le immagini: una foto di gombo (okra); una cartolina relativa al progetto Semìno; l’ideatore involontario del progetto, Farouk, nella cucina di Vetro, all’interno delle Serre dei Giardini Margherita, con una pianta di okra.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 156, dicembre 2018)