Le attuali speculazioni borsistiche sono lontane dall’economia reale e dalla produzione di beni e persino loro nemiche. Ma ciò è dovuto anche all’abolizione di alcune prudenti norme di limitazione e salvaguardia…
Sia ben chiaro. Il capitalismo è un sistema economico – ma anche sociale, politico, culturale – di per sé spietato. Esso si basa sul profitto, sul guadagnare a ogni costo. A scapito di lavoratori, loro salari e sicurezza, ambiente, risorse naturali, rispetto della natura. Premesso questo, è innegabile che l’industrializzazione e la commercializzazione di utili prodotti a prezzi accessibili alle masse grazie all’economia di scala abbia generato non solo stratosferici utili per le società e per i loro azionisti, ma anche benefici diffusi e miglioramento della qualità della vita.
A tutto ciò aggiungiamo che già pochi decenni dopo la Rivoluzione industriale le ideologie socialiste hanno posto la questione di più umani trattamenti per i lavoratori e più equa distribuzione della ricchezza, da perseguire grazie alle lotte sociali (fino all’utopia della rivoluzione) o con grandi riforme, attraverso la contrattazione tra Stato, forza-lavoro e capitale. Insomma, sì interessi e profitti, ma anche giustizia sociale e diritti per tutte/i. Nel corso del XIX e di buona parte del XX secolo, sono state emanate sempre più norme che limitavano lo strapotere delle imprese e garantivano una vita decente alle masse (stato sociale). In particolare, specie dopo la disastrosa crisi di Wall Street del 1929, si è cercato di evitare che il capitalismo speculativo, cioè quello azionario, che nulla produce, trascinasse nella rovina intere nazioni. Così, nel 1933, dopo quella catastrofe finanziaria, causata da un mercato follemente speculativo, negli Stati uniti, all’interno del vasto Glass-Steagall Act, venne approvato l’Emergency Banking Act. Si tratta di uno dei tanti provvedimenti partoriti nel corso del New Deal (1933-1938) promosso dal presidente (dal 1933 al 1945) Franklin Delano Roosevelt e ideato dagli economisti seguaci delle dottrine di John Maynard Keynes.
Con tale legge si introducevano misure per contenere la speculazione da parte degli intermediari finanziari e prevenire situazioni di panico bancario. Come scrive Glauco Benigni ne Lo spettro dei 3 Big, «tra le misure si prevedeva l’introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. In base alla legge, le due attività non poterono più essere esercitate dallo stesso intermediario, realizzandosi così la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Si impediva, di fatto, che l’economia reale fosse direttamente esposta all’influenza della finanza». Il crollo dell’Unione sovietica, il tramonto delle idee socialiste e, soprattutto, l’abbandono delle masse povere da parte dei partiti di sinistra per abbracciare l’ideologia liberal/radical chic e il conseguente tema astratto dei diritti umani e civili (donne, immigrati, galassia lgbtqia+, ecc.) in consonanza col neocapitalismo neoliberista rampante, hanno prodotto una disfatta per le classi operaie e medio-basse.
Continua Benigni: «Le Elites hanno imposto un neoliberismo che si fonda non più e non solo sull’egemonia derivante da accumulo di plusvalore ricavato dalla produzione di merci, ma su una serie di nuove fonti di reddito, tra le quali brilla la produzione incontrollata di valore di scambio nelle borse. […] È meglio lottare per possedere i mezzi e le infrastrutture di produzione o è meglio tentare di partecipare agli utili che il sistema neoliberista produce in borsa? Visto lo scarto svantaggioso tra i volumi dell’economia reale e quelli della finanza numerica; viste le aliquote di tassazione rispettive che favoriscono la finanza; unitamente alla propaganda politica, alla seduzione della pubblicità e all’induzione di stili di vita favorevoli al liberismo individualista, la scelta si sta sempre più orientando verso la seconda opzione. […] In questo momento decine (forse centinaia) di milioni di risparmiatori e milioni di piccole e medie aziende non re-investono i propri risparmi e le proprie eccedenze di capitale in strutture produttive e solo un’esigua minoranza immagina di generare lavoro per sé e per i propri “uguali”. Non ci pensano proprio! Non appena c’è un po’ di risparmio, un trattamento di fine rapporto, un lascito ereditario o un capitale immobilizzato, la stragrande maggioranza cerca “una via breve” per farlo fruttare, ovvero il modo migliore di investirlo per trarne utili e rendite di posizione senza affaticarsi e preoccuparsi “del prossimo”».
Si passa così da un’economia “reale” a una “virtuale”. Ancora Benigni: «Prima del boom delle borse, e in dettaglio prima dell’avvio di Nasdaq, che ha sostituito la compravendita “umana” con la compravendita digitale gestita da algoritmi, il Valore di Scambio (capitalizzazione finanziaria) era fortemente correlato con il Valore d’Uso (prodotto dall’economia reale). Semplificando si può dire che la ricchezza materiale (il Pil) aveva un suo contrappasso ragionevole nella ricchezza trattata nelle borse. Con l’avvento di Nasdaq e la prima collocazione in borsa delle società all digital la finanza inizia un percorso di virtualizzazione numerica, favorito dagli scambi digitali che avvengono in uno spaziotempo in cui la velocità e i volumi tendono a infinito mentre i tempi d’accesso e di scambio tendono a zero. In questa nuova “dimensione numerico-finanziaria” la produzione di valore di scambio viene esaltata e cresce esponenzialmente il suo volume “slegandosi” dal contrappasso materico (l’economia reale). Ciò ha consentito agli speculatori di accedere alla produzione e gestione di masse finanziarie sterminate, che vengono create in continuazione semplicemente grazie alla moltiplicazione degli “scambi” e non hanno a che vedere con l’economia materica reale. Tant’è che è noto ormai che per ogni dollaro o euro corrispondente a valore d’uso (economia reale) esiste in circolazione nelle borse (secondo il Fondo monetario internazionale) un valore equivalente un po’ maggiore. […] Secondo altre fonti, però, il valore della capitalizzazione nelle borse sarebbe da 4 a 8 volte superiore a quello del Pil planetario». Insomma, il rapporto tra economia produttiva ed economia finanziaria è distorto e insano.
Non appare pertanto un caso che nel 1999, dieci anni dopo la scomparsa dell’Urss comunista, viene abolito il soprannominato Glass-Steagall Act. Molti sostengono che sia stata proprio questa abrogazione la causa principale della crisi del 2007. Sempre Benigni: «L’insolvenza nel mercato dei mutui subprime, iniziata nel 2006, ha scatenato una crisi di liquidità che si è trasmessa immediatamente all’attività bancaria tradizionale, perché quest’ultima era in commistione con l’attività di investimento. Tra gli effetti dell’abrogazione si è permessa la costituzione di gruppi bancari che, al loro interno, consentono, seppur con alcune limitazioni, di esercitare sia l’attività bancaria tradizionale sia l’attività assicurativa e di investment banking. Dopo la nuova Grande recessione del 2008, durante la presidenza Obama, si tentò di ripristinare almeno parzialmente la Glass Steagall con il Dodd-Frank Act. In realtà la porta s’era aperta e i buoi erano già tutti scappati. Oggi alcuni osservatori ritengono che la marcia trionfale dei Mutual Funds sia stata resa possibile proprio dall’abrogazione del Glass-Steagall Act».
C’è di più: contemporaneamente il World Tradig Organization elimina le norme che ogni paese aveva escogitato per ostacolare il trading dei derivati. Tale cancellazione di ogni controllo su questi ultimi permise la penetrazione nei mercati a quei prodotti contrattati fuori Borsa, compresi gli asset tossici. Infine, sempre nel 1999-2001 la Cina entra a tutti gli effetti nel Wto, con le conseguenze di concorrenza sleale verso gli altri paesi che oggi abbiamo tutti sotto gli occhi (leggi pure Cina, scacco matto in cinque mosse). Entrambe le scelte introducono “libere volpi in liberi pollai”. Siamo così giunti alla situazione mondiale di cui abbiamo parlato negli altri due nostri contributi apparsi in questo numero di LucidaMente 3000 (Chi sono i più potenti del mondo? e La finanza spietata: dal boom dei titoli degli armamenti allo sciacallaggio sui debiti sovrani e sulle aziende in crisi). Un’economia dominata dalle speculazioni del neocapitalismo finanziario, staccata dalla produzione reale di beni e servizi, e sempre più disumana e lontana dagli interessi delle persone, delle famiglie e, soprattutto, delle masse popolari messe le une contro le altre.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVII, n. 198, giugno 2022)