A distanza di qualche mese dalla vicenda della Sea Watch 3, vale la pena riflettere ancora sul dramma dell’immigrazione clandestina. Senza paura di scontrarsi con la narrazione patetica e dominante, che, invece di cercare soluzioni, alimenta il vuoto di responsabilità generale nell’effimera illusione della bontà del salvataggio
Sono tanti, in Italia, a confondere l’immigrazione clandestina con un libero viaggio della speranza. Di libero ha poco o nulla, se consideriamo soltanto il lungo periodo di detenzione nelle carceri libiche cui i migranti africani sono di norma sottoposti. E affoga nel Mediterraneo, la speranza, mentre chi sopravvive è costretto a una vita stentata, lontano dalla propria famiglia, in balia della malavita, che rappresenta la principale artefice di tale scellerata deportazione.
Carola Rackete, «la capitana», come si dice in brutto italiano, è stata soltanto l’ennesimo burattino di uno spettacolo disgustoso, che continua tuttora, se soltanto il 19 settembre scorso la trentunenne tedesca è stata ospite, controversa, di Piazzapulita. Chiariamo subito un punto, per evitare grossolane accuse di razzismo neofascista. Chiunque, al posto del capitano della Sea Watch 3, aveva il dovere, il giugno scorso, di salvare quegli uomini. E non soltanto perché lo ha detto, pugni sul tavolo, il gip di Agrigento – o Richard Gere. È un sentimento proprio di ogni uomo, giusto e necessario, sancito dal diritto internazionale. Carola, però, aveva a bordo una squadra di giornalisti ancor prima di partire dal porto di Licata. Sono loro a raccontarlo, nella cronaca della spedizione. La capitana conosce il luogo del naufragio, e, dopo il recupero, punta dritto sull’Italia. Gironzola per settimane attorno ai suoi confini. Infine, pur di entrare a Lampedusa, se ne infischia delle autorizzazioni e sperona una nave militare di un Paese sovrano. Questo non è esattamente ciò che farebbe un buon capitano. Non si contesta – solo un barbaro potrebbe – il salvataggio, bensì l’evidente premeditazione del gesto, palese favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Carola, lo ripetiamo, non si trovava lì per caso: è il suo lavoro. Prima lo faceva con albatros e orsi polari, ora lo fa con le persone. È un tecnico, un’esperta di navigazione, tanto che il padre la vorrebbe sistemare nel suo vecchio dipartimento di ricerca missilistica. È un soldato, che agisce per una causa, per la redenzione di un senso di colpa esistenziale: essere bianca, ricca e occidentale. E donna, per giunta, cioè schiava dei reggiseni imposti dal maschio padrone. Come Greta Thunberg, rappresenta il simbolo pop di una sinistra andata a male. Che vantaggio può derivare, all’Italia, da una tardoadolescente che rifiuta la propria identità, per giunta appoggiata e guidata dai politici di un altro Paese?
Carola vince perché, pur di rimanere nel limbo dell’eterna emergenza, si preferisce non pensare, in balia di sentimenti ed emozioni. Salvare è giusto: uno slogan che purifica chi se ne fa portavoce, ma è pure la maschera dietro cui prospera un crimine feroce. L’immigrazione non è un simbolo, e nemmeno un’icona, ma dura realtà, che fa in media duemila vittime all’anno. Esultare per quaranta persone è un atto umano, nella sua eternità, tuttavia ipocrita, nel contesto odierno, di fronte alla morte e alla violenza che i migranti subiscono sempre, ingiustamente, da quando partono a quando arrivano. L’Italia, l’Europa, il mondo intero dovrebbero muoversi di concerto e concretamente (non così), o per garantire una sana immigrazione, regolamentata fin dall’Africa centrale, o per fermare questo scelus disumano. Scomodare Antigone, colei che spezza la legalità in nome di un ideale superiore, è il brutto vizio degli ingenui e degli ignavi, razze popolose in questa penisola, che ha sempre consentito agli stranieri di darle forma e controllarla.
L’idolatria che tanti “compagni” riservano a Carola, in nome di un umanesimo a buon mercato, trasfigura l’appartenenza politica in santità, mentre impedisce di ripensare il fenomeno migratorio su altre basi. L’incapacità, italiana ed europea, di rendere l’immigrazione una risorsa, per chi arriva tanto quanto per chi accoglie, produce la tensione sociale alimentata dai populisti e rallenta un reale progresso della nostra società. Rinchiudersi in un lessico sentimentale, scambiare per eroismo l’illegalità, avvelena la coscienza critica del paese, intorbidisce il dibattito pubblico e coltiva nuove generazioni di manichei monocromatici. Salvare persone non sarà mai sbagliato. Ma sospendere la nostra intelligenza, nel terrore di essere accusati di razzismo, fraintende la tragedia sotto i nostri occhi, e fa il gioco di chi, purtroppo, non si fa scrupoli ad approfittarsene.
Le immagini: Carola Rackete a bordo della Sea Watch 3 (foto di Paul Lovis Wagner, licenza Creative Commons); Théodore Géricault (1791-1824), La zattera della Medusa (olio su tela, 1819, Parigi, Museo del Louvre).
Federico Tanaglia
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)
Buonasera Federico, la ringrazio innanzitutto per il suo contributo: è importante osservare uno stesso fenomeno da più punti di vista, permette di non fossilizzarsi su un’unica narrativa. Tuttavia mi permetto di lasciare un commento poiché mi trovo in disaccordo con lei su molti punti, mentre altri non mi sono proprio chiari. Vorrei sapere cosa intende quando parla di “ripensare al fenomeno migratorio su altre basi” : ha forse una soluzione prêt-à-porter? In tal caso le suggerisco di fornirla al più presto agli organi competenti, vista l’urgenza della situazione. Ma proprio considerando quest’urgenza, nel tempo che la sua fatidica soluzione impiegherebbe per essere implementata, come avrebbe intenzione di fronteggiare gli arrivi? Chiaramente il sapere già il punto dove avviene un naufragio è da lei considerato una colpa, dunque in tal caso invierebbe navi a pattugliare il mare in maniera casuale o lascerebbe direttamente i migranti a sé stessi?
Puntare verso l’Italia significa seguire una, seppur ingiusta e auspicabile, delibera europea (quella riguardante il trattato di Dublino). Se forzare il blocco navale è stata un’azione fortemente criticata alla “capitana”, significa che chi la accusa si schiera per il rispetto delle leggi: dunque cosa avrebbe dovuto fare seguirle o non seguirle?
Un ultimo passaggio su cui apprezzerei una spiegazione riguarderebbe la “guerra dei reggiseni” e il fatto di ridurre una lotta ambientale come quella di Greta e una sociale come quella di Carola a una mera classificazione di genere: se sei giovane e donna non puoi portare avanti battaglie senza essere additata come la sguaiata che cerca la rivalsa sull’uomo cattivo.
La ringrazio in anticipo e attendo responso,
Buona serata!
Il bello della nostra rivista! Due redattori che scrivono nello stesso numero, con due opinioni diverse!
C’è chi ci considererebbe un ottimo esempio di pluralismo e libertà di stampa e… c’è chi ci considererebbe una redazione in piena confusione! E un direttore che si dovrebbe dimettere… 🙂
Gentile Alessia,
apprezzo il fatto che abbia chiesto chiarimenti in merito al mio articolo, perché comprendo che quando si tocca un tema scottante si debba anche essere pronti a fronteggiare critiche.
Sul punto: “ripensare il fenomeno migratorio su altre basi” significa semplicemente uscire dall’ipocrisia del fenomeno-emergenza e controllare i flussi dall’Africa centrale, come ho detto. Questo significa, nella pratica, l’intervento di forze militari europee o delle Nazioni Unite in tutti i punti di partenza (specialmente il Sudan) organizzando corridoi stabili (non in mano alla criminalità) fino in Libia, che, o attraverso un’occupazione militare oppure attraverso un accordo con un governo ufficiale che goda della fiducia internazionale, diventerà così il gate di Europa (ruolo che invece oggi è rappresentato dall’Italia). Da lì, non in barca (con aeroplani) i migranti verrano trasferiti in quote fissate tra tutti i Paesi europei. Naturalmente, questo processo presuppone un’unita di intenti rispetto all’immigrazione che oggi non è dato vedere, per volontà politica e per incapacità. Perché in realtà il consenso della gente non va a favore di una soluzione di questo tipo, soluzione a cui io invece sarei assolutamente disponibile a votare anche domani. Perché sarebbe fatta nell’interesse del migrante, per salvaguardarne realmente la vita.
Come fronteggiarla nel breve periodo? Così, cominciando a fare così. Invece non si fa, perché ci guadagno tutti dall’emergenza. E perché il consenso elettorale non lo permette. Quindi continuiamo a fare morire persone. Ecco perché anche se si sa, questa soluzione non viene applicata.
Il sapere il punto dove avviene il naufragio non è una colpa: è un punto della mia argomentazione che sta a significare che per Carola quella è una professione. Un capitano che casualmente si trovasse in quella zona di mare sarebbe stato giustificato nel soccorso, Carola no, perché lei ha voluto agire in quel modo sapendo che avrebbe avuto successo e ritorno mediatico, come ho spiegato.
Come ho premesso, lei ha fatto benissimo a fare quello che ha fatto, nel pieno rispetto delle regole. Questo mi pare fuori di dubbio. Ma il punto è che lo ha fatto volontariamente, cioè è partita già sapendo che tutto si sarebbe svolto tranquillamente secondo quel copione. È la presenza di un’intenzione, e dunque anche di testarda ostinazione nel progetto, a conferire entità criminale al gesto. È un approfittarsi della legge, non il suo seguirla, anche per un ritorno mediatico (ribadisco il punto dei giornalisti e di Richard Gere), a rendere spaventosa l’iconicità della figura del capitano, e ancora più inquietante la presenza di politici italiani a bordo della nave. Il dramma sta nel fatto che l’Italia, l’Europa, il mondo intero (i veri bersagli del mio articolo, insieme alla sinistra) non sanno inventarsi nulla di serio per fare immigrazione, ma ci hanno rinunciato in partenza inventando dei finti eroi su cui esultare fingendo così di assolvere a un compito sacro, affidandolo, come nel caso di Greta, a una portavoce altra e non istituzionale.
Sull’attacco maschilista, taccio. Ci tengo a precisare che sono state le sue adulatrici a innescare, in maniera assolutamente fuori luogo rispetto alla tragedia dell’immigrazione, l’hashtag #freenipplesday. Poi, se il reggiseno è un problema per le donne, che se lo tolgano. Io non ho mai obbligato nessuno a metterlo, ma sentirsene schiavo, a mio parere, denota un grave turbamento mentale. Perché è una libera scelta, non un’icona. Ho esagerato? Può darsi, ma lei non ha detto nulla sulle ragazze che l’hanno idolatrata su quel punto.
Se hai bisogno di altri chiarimenti, non esitare a contattarmi!