A dieci anni dalla prima uscita, il narratore calabrese offre una versione rivisitata e modificata del suo romanzo edito da Mondadori. In occasione della presentazione a Bologna, lo abbiamo incontrato e intervistato in esclusiva per “LucidaMente”
Lo scrittore Carmine Abate dona nuova vita a uno dei romanzi più significativi della sua carriera, La festa del ritorno (Mondadori, pp. 180, € 15,00), riproposto dieci anni dopo la prima edizione e in grado di (ri)presentarsi bene già dal titolo, decisamente profetico. Una storia toccante e traboccante di emozioni che trae spunto dal vissuto dell’autore, emigrato da giovane in Germania e in seguito rientrato in patria.
Nelle pagine di Abate tuttavia c’è qualcosa in più: i sapori e i profumi della sua Calabria, il valore di viaggi, radici e famiglia, l’amore e lo stato d’animo tumultuoso di un ragazzino che cresce lontano dal padre, costretto a vivere in Francia per lavoro. Ma vi sono anche antiche leggende, smarrimenti, illusioni e sogni. Poi lui, l’elemento principe: il fuoco. Il grande falò di Natale sul sagrato del villaggio di Hora dissolve la nostalgia e compie il miracolo di ricostituire il nucleo domestico protagonista. Questo filo conduttore che illumina l’esistenza dei protagonisti unisce, in particolare, un padre e un figlio distanti durante il resto dell’anno. L’intensità del loro dialogo assume i contorni di un disvelamento reciproco, uno “scioglimento” di fronte al calore ritrovato, un intimo confronto generazionale che li mette a nudo, mostrando i sentimenti che trapelano da una ruvida corazza. Ad arricchire una narrazione vivace, avvincente, tenera e dura al contempo, l’esperimento linguistico della trasposizione di parole in italiano, in dialetto calabrese e in quello arbëreshë, tipico della comunità di idioma albanese di Hora. Esse si fondono insieme fino a rappresentare l’essenza stessa dei personaggi.
In occasione della presentazione, a Bologna, de La festa del ritorno – a un decennio dall’edizione che gli valse il premio selezione Campiello (vedi anche Il vento di Carmine Abate soffia sul Campiello) – abbiamo incontrato e intervistato l’autore, che ci ha rivelato quanto sia importante e che cosa abbia rappresentato (e rappresenti) ancora oggi questo lavoro. Dal punto di vista privato e, specialmente, sociale, esso svolge un ruolo fondamentale, grazie ai temi dell’emigrazione, della crescita dei figli e degli affetti lontani poi ritrovati.
Carmine Abate, che cosa significa regalare ai lettori un’opera “rinnovata”? Ha modificato qualcosa rispetto alla “prima” Festa del ritorno?«Innanzitutto devo dire che sono veramente contento del mio nuovo libro. Sì, nuovo libro. Considero un regalo da parte del mio editore averlo potuto riprendere in mano. Quando mi sono messo a rivedere le bozze, però, mi è successa una cosa strana: mi è sembrato di correggere il testo di un altro, quindi l’ho ritoccato tantissimo, sia stilisticamente sia nei contenuti, ma ha continuato a emozionarmi come allora. Si tratta di una storia che mi è particolarmente cara perché l’avevo dentro fin dall’inizio della carriera di scrittore; solo che, all’epoca, non potevo costruirla per un motivo molto semplice: non riuscivo a entrare nella testa del padre, protagonista, assieme al figlio, del racconto, nel corso del quale i due si parlano davanti al fuoco di Natale. Non ero proprio in grado di immedesimarmi nella sua ottica e ce l’ho fatta solo dopo che sono a mia volta diventato genitore».
Dunque il romanzo di formazione ha rappresentato anche per lei un percorso giunto a compimento?«Sì, assolutamente. Tutta la mia fortuna critica, poi, è partita da questo volume, che mi ha permesso di entrare nel Campiello; in seguito, per i cento anni della Cgil, La festa del ritorno è stato scelto tra gli otto testi migliori sul tema del lavoro e ha avuto anche un altro tipo di edizione. Insomma, per me si tratta davvero di un libro “talismano”, importante e che mi porta bene [ride, ndr]! E porterà fortuna anche a chi lo leggerà».
Nelle sue opere l’esperienza dell’emigrazione e quella del ritorno rappresentano spesso una costante, assieme ai percorsi di crescita di figli che attraversano prove difficili per le loro età. Ciò emerge qui già a partire dal titolo…«Tale romanzo in particolare è di formazione e, come Il bacio del pane (uscito un anno fa, sempre per Mondadori, ndr; vedi Un’estate a Spillace), vira al sociale: per me non è rilevante mostrare la crescita di un bambino in sé, ma l’avvenimento deve avere anche uno spiraglio in un mondo di impegno collettivo, nel contesto delle difficoltà di una terra complessa. Qui si affronta di petto il problema dell’emigrazione e si capisce che essa può essere vista non solo come ferita ma anche come ricchezza. La figura paterna, assente ma molto presente, è emblematica di questo. È memorabile la scena del ragazzino che sta per fumare: l’adulto è, appunto, all’estero, ma la sera stessa in cui il figlio prende la sigaretta e fa la prima tirata compare improvvisamente il padre che gli “molla” un ceffone che lui non dimenticherà più».
L’accento che dà il tono maggiormente sostanzioso all’opera, conferendole linfa vitale,è posto quindi da Abate proprio sul fenomeno dell’emigrazione: scelta difficile che impone cambiamenti e sacrifici, soprattutto nella sfera affettiva, essa in un certo senso sgretola l’equilibrio per poi ricomporlo. Nel finale, infatti, si comprende il filo conduttore tra le vicende e i protagonisti, che si intrecciano ed evolvono con sempre maggiore maturità.
Le immagini: la copertina della rinnovata edizione de La festa del ritorno; Carmine Abate che autografa le copie e incontra il pubblico alla libreria Mondadori di Bologna, in una foto dell’autrice dell’articolo; migranti di una volta.
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno IX, n. 108, dicembre 2014)