Reportage da Cinisi, dove il 9 maggio 1978 il giovane giornalista e attivista antimafia siciliano venne barbaramente trucidato da Cosa nostra. I vari depistaggi e la recente sentenza nel “Processo trattativa stato-mafia”
Se vi capiterà di andare a Cinisi (Palermo), a un certo punto di corso Umberto I, abbassando lo sguardo, vedrete delle mattonelle. Riportano dei disegni, delle frasi di personaggi noti: Dante Alighieri, Placido Rizzotto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella… Non potrete far a meno di seguirle, quelle “pietre d’inciampo” colorate, che si susseguono l’una dopo l’altra a distanza di un passo.
Sono lì, dal 2014, proprio per aiutarvi a contare i “cento passi”, ovvero la distanza che intercorre da quella che era la casa del mafioso Gaetano “don Tano” Badalamenti, il capo della locale cosca alla fine degli anni Settanta, e l’abitazione (oggi Casa Memoria) di Giuseppe “Peppino” Impastato, giornalista e attivista antimafia massacrato da Cosa nostra il 9 maggio 1978. È lì che arriverete alla fine del percorso, sull’uscio di una casa che ha sempre la porta aperta, da quarant’anni, da quando la mamma di Peppino, Felicia Bartolotta, decise che non avrebbe rispettato la tradizione siciliana nei confronti del lutto – che voleva che le donne si chiudessero in casa per un certo periodo di tempo – ma che avrebbe accolto e parlato di suo figlio a chiunque avesse varcato quella soglia. Dal 2004 Felicia non c’è più, ma a parlarvi di Peppino ci sarà suo fratello, Giovanni, o qualche volontario del Centro Giuseppe Impastato.
Mentre vi guarderete intorno, osservando le fotografie del giovane Peppino, gli articoli pubblicati il giorno della sua morte, i dipinti, le poesie, i colori di quella stanza, Giovanni vi farà notare che – come ha scritto anche nel suo ultimo libro Oltre i cento passi (2017, edito da Piemme) – «non ci sono davvero cento passi per andare da casa di Peppino a quella del boss: si tratta solo di attraversare la strada. La mafia è più vicina di quanto sembra» (vedi anche A Ponteranica cancellato Impastato).
Salendo le scale, andrete nella stanza di Peppino, dove tutto negli anni è rimasto uguale a come il giovane l’aveva lasciato: il letto rifatto, i libri sul comodino, i fogli su cui probabilmente avrebbe scritto un’altra delle sue poesie o, chissà, gli appunti per una nuova puntata di Radio Aut, quell’emittente attraverso la quale parlava di ambiente, cultura, legalità; il mezzo con cui sbeffeggiava don Tano e i mafiosi locali attraverso le celebri trasmissioni di Onda Pazza. Giovanni osserverà la vostra faccia stupita mentre guarderete il tesserino dell’ordine dei giornalisti di Peppino, che reca, incredibilmente, la data della sua morte. Giuseppe Impastato risulta infatti iscritto all’albo da quel giorno; lo spazio per la firma del titolare è da sempre vuoto (vedi anche Rimane chiuso il casolare dove venne ucciso Peppino Impastato).
«Eppure, ha senso, questa tessera – scrive ancora Giovanni in Oltre i cento passi – perché Peppino, che non stava mai zitto, dal 9 maggio 1978 fa, eccome, il giornalista. Magari prima parlava, scriveva, alzava la voce, scherzava, ironizzava, sbeffeggiava. Ora grida». La mafia ha avuto la vista corta: uccidendolo, voleva zittirlo, e invece ne ha amplificato la voce come un megafono. Certo, ci sono voluti sei anni perché quello di Peppino, tra l’altro discriminato in quanto militante nel piccolo partito di estrema sinistra Democrazia proletaria, venisse riconosciuto come un omicidio di stampo mafioso, e ben 24 perché il suo mandante, Badalamenti, appunto, venisse condannato.
Per giungere a questo risultato è stata fondamentale la stoica resistenza della famiglia e dei compagni di Peppino, che non hanno dato credito alle minacce e alla “macchina del fango” costruita affinché il nome di Peppino morisse insieme a lui. «È stato un suicidio – recitavano i giornali il 9 maggio – Giuseppe Impastato è saltato in aria a causa della bomba che lui stesso stava piazzando, mentre preparava un attentato di stampo comunista contro la ferrovia». E questo hanno ripetuto molti uomini politici e forze dell’ordine per sei lunghi anni, finché il giudice Rocco Chinnici riaprì il caso (vedi anche Chi era Peppino Impastato, ucciso dalla mafia). Proprio qualche giorno fa, il 20 aprile, è stato condannato dalla Corte di Assise di Palermo, nella sentenza del cosiddetto Processo trattativa stato-mafia, il generale Antonio Subranni, che si occupò delle prime indagini sulla morte di Impastato, avallando l’ipotesi del terrorismo. Nel 2000 è stato provato che, nel caso di Peppino, ci fu un depistaggio delle indagini.
Il necroforo comunale, infatti, aveva consegnato ai carabinieri delle pietre insanguinate, trovate nel casolare dove Peppino era stato ucciso prima che il suo corpo fosse fatto saltare in aria sulla ferrovia. Pietre che da quel momento non sono più state ritrovate. Certamente questa sentenza è stata una vittoria per gli ambienti dell’antimafia, un successo che aiuta a rinnovare l’impegno assunto il giorno del funerale di Impastato, quando apparve il celebre striscione che recitava: «Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo».
Le immagini: una delle “pietre d’inciampo” a Cinisi (foto dell’autrice dell’articolo), Peppino con la madre (rottaproletaria.wordpress.com) e la locandina del noto film I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, dedicato a Impastato.
Sara Spimpolo
(LucidaMente, anno XIII, n. 149, maggio 2018)