Angelo Avignone, col suo saggio “Urlare la libertà” (Pellegrini editore), traccia un profilo sintetico, ma preciso ed esaustivo, di un personaggio culturalmente e politicamente complesso e inafferrabile
Il 2 novembre 1975 veniva turpemente assassinato Pier Paolo Pasolini, poeta, narratore, regista, saggista, intellettuale (termine quanto mai adatto alla sua personalità). Per l’occasione il nostro direttore dedica un ricordo personale e la recensione di una monografia sul mitico PPP.
I ricordi precisi, nitidi, dettagliati, di una triste giornata restano solo quando muore un parente o un caro amico. Non so perché mi sia successo anche il 2 novembre 1975. Nella notte era stato trucidato Pier Paolo Pasolini. Le prime notizie, confuse, imprecise, quasi stupefatte, dell’orrendo delitto cominciavano a essere diffuse alla radio e alla tv.
Era domenica. Una domenica grigia. Il giorno dei morti. Nuvole che non si sarebbero trasformate in pioggia, in un pianto liberatorio. Io ero un ragazzino non ancora maggiorenne. Ma avvertivo una tristezza infinita. Ricordo perfettamente che mi recai allo stadio per la consueta partita di calcio con la mia squadra del cuore impegnata in casa. Anche lì qualcuno parlava dell’accaduto e si scambiava opinioni. Anche lì aleggiava una strana atmosfera malinconica. La partita, senza emozioni e sussulti, finì con un noioso 0-0. Una bella sintesi della figura e dell’opera del letterato è delineata nel libro Urlare la libertà. Pier Paolo Pasolini (Luigi Pellegrini editore, pp. 152, € 12,99) di Angelo Avignone. Una monografia che ci ha ricordato i celebri volumetti-monografia della Mursia o di Le Monnier o, ancora, I Castori de La Nuova Italia, ciascuno dedicato a un letterato.
La pubblicazione di Avignone, introdotta da una Prefazione di Enzo Ferraro, è divisa in sei agili capitoli (più una Conclusione, un’Appendice e un’ampia Bibliografia), che trattano le varie sfaccettature di Pasolini. Tantissime le citazioni tratte dall’opera dell’artista e non solo. Il Capitolo I (Chi era Pasolini?) evidenzia come cifre caratterizzanti l’intellettuale la sua peculiarità libertaria e la diversità, non solo in quanto omosessuale, ma perché sempre eretico e controcorrente. Il secondo capitolo (Dalla poesia in dialetto alla poesia in lingua) descrive l’attività poetica di Pasolini, prima in friulano, poi in italiano, impegnata senza sosta nella denuncia sociale.
Il terzo capitolo è intitolato Eterodossia e analizza il pensiero eccentrico di Pasolini, così come traspare nei suoi saggi. Il Capitolo IV (La visione “religiosa”, con le virgolette non casuali) rileva la religiosità particolare di PPP. Al riguardo Avignone parla di «una costante ricerca di intimità col sacro e un’adesione lancinante alla figura di Cristo […] intessuta di nostalgia del tempo passato che rivive nella memoria della fanciullezza trascorsa a Casarsa». Il quinto capitolo (Nel “ghetto” delle borgate) è dedicato alla sua narrativa e al suo cinema aventi come protagonista il sottoproletariato. Il Capitolo VI (Petrolio, una testimonianza) parla del romanzo postumo di Pasolini. In Appendice è riportata l’intervista rilasciata dall’intellettuale a Furio Colombo proprio nel pomeriggio di sabato 1 novembre, a poche ore dalla propria morte.
Oltre all’estrema sensibilità di Pasolini nel cantare «in maniera lancinante il dolore che è, in definitiva, il dolore del mondo», il suo aspetto più impressionante è la capacità di proiettarsi nel futuro, prevederne gli sviluppi. Oggi la disgregazione dei popoli e della loro cultura, da lui denunciata con forza, è arrivata all’estremo compimento. Nel senso che essi stanno scomparendo. Il capitalismo si è trasformato in capitalismo finanziario mondializzato e l’Unione europea in una casta di burocrati “globalisti” che hanno asservito i governi nazionali e i loro cittadini.
Un nuovo Leviatano con poteri incontrollabili, che, col mito del multiculturalismo e dell’immigrazionismo (prevalentemente islamico), sta facendo sparire secoli di cultura europea, nazionale e popolare. Evidenzia infatti Avignone che il «pensiero unico che uniforma e appiattisce» prevale, in una società «pilotata per arricchire gruppi economici sempre più potenti». E Pasolini aveva giusto anche dubitando del Sessantotto; egli fu capace di cogliere la «natura strumentale di quella rivolta, fatta non per rovesciare il sistema, ma per sostituirsi ad esso ed occuparne il posto». E, infatti, il pensiero sessantottino è alle origini dell’ideologia pervasiva oggi dominante in Occidente: un totalitarismo soft che indora col buonismo e le frivolezze il reale peggioramento delle condizioni economiche delle masse e la perdita dei classici riferimenti socioculturali. Anche in questo caso, Pasolini aveva avuto lo sguardo lungo…
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XII, n. 143, novembre 2017)