Harambe nasce a Bologna nel marzo 2004 come associazione senza fini di lucro, per mano di alcuni studenti di Scienze politiche. L’obiettivo che si pone è quello di migliorare le condizioni di vita di quelle minoranze che spesso vedono i propri diritti calpestati e la loro sopravvivenza fisica e culturale minacciata. L’emblematico nome dell’associazione (“noi insieme” in lingua swahili) racchiude in sé lo sforzo di superare la distanza che ancora divide rom, immigrati e non solo, da “noi occidentali pasciuti”, e rappresenta la volontà di creare un incontro e un dialogo tra i vari esponenti di questa società multietnica.
I ragazzi di Harambe si dedicano principalmente a due tipi di attività: coinvolgere gli abitanti dei campi rom affinché possano entrare in contatto fisico e sociale con la città, dando loro la possibilità di distaccarsi almeno in parte dalla realtà periferica in cui sono relegati. A questo si rivolgono i progetti Coccinella, presso il campo di Trebbo di Reno, chiuso a fine settembre, Zambet di Villa Salus e Santa Caterina a Santa Caterina di Quarto.
Lo sportello sociale e i corsi di italiano, invece, hanno la finalità di aiutare gli stranieri a destreggiarsi nella nostra intricata burocrazia attraverso, rispettivamente, l’assistenza diretta e l’insegnamento dell’Italiano.
Parallelamente alle attività portanti ne vengono organizzate altre, a sostegno di queste, finalizzate a promuovere l’associazione, a sensibilizzare i cittadini sul problema di rom e immigrati, a relazionarsi con i vari enti e istituzioni, a organizzare cineforum e conferenze nonché cene e banchetti per il merchandising.
L’esperienza sul campo e l’integrazione
Alice Siroli è entrata nella squadra di Harambe circa un anno fa scegliendo di dedicarsi al progetto del campo di Trebbo di Reno.
Alice ci spiega che inizialmente l’obiettivo del progetto era recare i bambini fuori dal campo per metterli in contatto con la realtà cittadina, ma nell’ultimo anno questo non è stato possibile perché i fondi scarseggiavano. “Se si rimane sempre all’interno del campo – sottolinea Alice – questo diventa luogo di segregazione, come fosse un ghetto”. Gli operatori sono riusciti a creare occasioni per fare partecipare i bambini ad alcuni laboratori, come quello della Partt o della Feltrinelli, o per portarli ai giardini, momenti in cui venivano a contatto con coetanei italiani. “Quando c’è la possibilità – continua Alice – si fa la gita, che consiste nel portare i bambini e gli adolescenti di un unico campo fuori Bologna. In queste occasioni c’è la possibilità di conoscersi meglio tra ragazzi ed educatori, il rapporto si intensifica, sono momenti bellissimi”.
Alice parla di episodi che raccontano della “chiusura” dei più grandi: “Una volta hanno visto la propria figlia che baciava un ragazzo italiano e per punizione l’hanno tenuta in casa un mese. Loro ci definiscono gagé che vuol dire “non rom”, cioè “non uomo”, perché rom vuol dire uomo”.
Secondo Davide Lucchetti, vicepresidente di Harambe, non si può però dire che non vogliano integrarsi, anzi: “Per certi aspetti sono già integrati perché lavorano, vanno a scuola, i bambini parlano in dialetto bolognese. Come per tutti i fenomeni migratori, saranno poi le seconde generazioni a trarre giovamento dal discorso integrazione“. In effetti tra gli adulti e i ragazzi c’è un baratro generazionale. “Per quanto riguarda l’integrazione degli adulti – aggiunge Davide – più che un fatto di volontà è un fatto di difficoltà perché la loro è una cultura molto rigida che si scontra con alcuni aspetti della nostra”.
Il problema della casa
Il Comune ha stabilito un piano di chiusura per ognuno dei tre campi su cui lavorava Harambe. Il piano di chiusura consiste nella ricerca di alloggi, regolarizzazione dei permessi di soggiorno e fase di inserimento nelle nuove abitazioni. Oggi quasi tutte le famiglie dei tre campi hanno un appartamento.
Purtroppo questo è solo relativamente un buon risultato: “Io e Alice – continua l’operatore – abbiamo lavorato a Trebbo di Reno, dove le persone hanno vissuto per quattordici anni e dopo questo periodo ottenere un appartamento è sì positivo, ma sarebbe dovuto accadere dieci anni fa. Per gli abitanti dei tre campi il Comune ha proposto: per i primi quattro anni affitti pagati al 50%25 dalle famiglie, mentre l’altra metà se l’accolla il Comune stesso. Le case non sono popolari ma di privati; con l’affitto condiviso, bene che ti vada, vai a spendere sui 350 euro. L’unico aspetto per cui ritengo che il Comune abbia lavorato abbastanza bene è che ha cercato di trovare alloggi nelle zone dei rispettivi campi per agevolare chi lavora e chi studia da quelle parti”.
Chiediamo a Davide come considera queste agevolazioni offerte a rom e profughi: “Non credo che abbiano ricevuto aiuti particolari perché nei loro anni di permanenza nei campi ne hanno vissute di tutti i colori. Queste persone si sono trovate in una condizione in cui vivevano in container del 1994 che dopo sei o sette inverni hanno cominciato a bucarsi, ci pioveva dentro. Ci sono persone che si sono ammalate vivendo lì dentro, in condizioni di vita indegne, e pagavano affitti di 130 euro mensili, grazie alla “bellissima” legge Bossi-Fini. Ritengo che gliene abbiano fatte passare a sufficienza”.
Il Comune non fa quello che dovrebbe
In questi campi, a Trebbo soprattutto, il Comune ha fatto lavorare cooperative, pagandole con i soldi della Regione, per lavori di manutenzione, di gestione del campo, ecc… Tra i loro compiti c’erano quelli di ricercare lavoro, magari per i ragazzi che compivano diciotto anni, e di inserire le donne nel mercato, ma tutto questo non è mai stato fatto.
A Trebbo, la cooperativa designata si è limitata a fare “lavoro di portineria”, controllando le entrate e le uscite dal campo. In questa fase di chiusura il Comune ha incaricato un’altra cooperativa, la Piccola carovana, di occuparsi della ricerca e della proposta degli appartamenti alle famiglie e dell’inserimento abitativo, mentre sarebbe stato compito della prima svolgere queste attività.
“Insomma – conclude Davide – vengono sputtanati soldi pubblici per lavori inutili perché basterebbe che il funzionario del servizio sociale lavorasse per bene. Tutti questi intermediari rappresentano malfunzionamento del sistema”. Infine si sbilancia con una previsione: “Siccome la primavera prossima ci saranno le elezioni comunali, il Comune si è dato come impegno quello di chiudere i campi con anticipo, anche in modo da poter fare una campagna elettorale in cui sbattere in faccia agli elettori niente più zingari, niente più campi rom, niente più campi nomadi, guardate che bello e che bravo il Comune!“.
L’immagine: il “logo” di Harambe.
Luca Manni
(LM MAGAZINE n. 5, 15 ottobre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)