Nel romanzo “Acasadidio” (Manni Editori) di Giorgio Morale gli “sfigati” su cui guadagnare
Un libro che offre un quadro amaro del volontariato, o presunto tale, facendo riferimento a una immaginaria “Compagnia”, nella quale è possibile scorgerne in filigrana un’altra tutt’altro che inventata dalla fantasia del narratore, legata a un movimento integralista cattolico e appoggiata dal “governatore” di un’importante regione del Nord Italia. Un romanzo pungente e critico sulla realtà italiana di alcune organizzazioni cattoliche, che si preoccupano principalmente del profitto, anche a scapito delle persone che usufruiscono dei loro servizi.
Sono le peculiarità di Acasadidio (Manni Editori, pp. 144, € 14,00) di Giorgio Morale, il cui titolo gioca sia con l’ubicazione del luogo, ovvero la collocazione periferica e isolata della sede dell’ente di cui si parla nell’opera, sia con la sua “cattolicità”.
Il “Centro”
Ci troviamo all’estrema periferia di Milano:
“Dentro, gelo di canonica. Stabile vecchio, volutamente povero, per dare l’idea della penuria dei mezzi. Di quegli spazi di cui una lunga tradizione ha perfezionato il modello. Angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, lunghezza dei corridoi, locali tutti uguali. […] É quel che si dice: curare l’immagine. […] Siamo in un centro di volontariato”.
Per respirare aria cattolica ci si cura di tutti i dettagli:
“Infatti dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta incorniciate”.
Nel Centro impera l’individualismo: ognuno pensa per sé, non esiste il lavoro d’equipe. Non ci sono controlli, nemmeno da parte dello Stato e degli enti pubblici, erogatori di finanziamenti. Anzi, spesso senza troppi sforzi, grazie a questi ultimi, si vincono gli appalti per una telefonata delle istituzioni:
“Anche la Regione. Pubblicizza bandi e appalti tardi perché un comune mortale possa fruirne, e prima della scadenza convoca le associazioni amiche per decidere le parti”.
Le “non persone”
“Siamo o non siamo quelli che fanno i soldi con gli sfigati? […] Prima andavano forte i tossici, adesso non più. Idem per i malati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate”.
Sembra che il Centro abbia a che fare con “non persone”, merce da cui trarre profitto. Per questo non si preoccupa di alzare il livello e la qualità del lavoro degli immigrati che si rivolgono a loro. Solo Teresa, la segretaria del fantomatico ente, con la sua umanità e sensibilità, li riscatta:
“Gli stranieri invece sono vivi. Sono visibili. Dove arrivano, fanno la loro casba. Noi, che facciamo? Guarda le africane: talmente colorate, che non hanno bisogno di trucco; se appena tinte di rosso, le labbra splendono come la luna più rossa nella notte più nera. Oppure con un che di antico nell’aspetto matronale, come tante dee madri. Anche gli uomini ti trasmettono un senso di pienezza e nessun isterismo. Basta guardarli con i bambini: mai urla, sculacciate, sberle, occhi cattivi”.
E come scelgono i lavoratori?
“Se una donna si prostituisce e si droga, ma viene a dire: “Mi pento e mi dolgo”, anche se poi continua imperterrita, ha l’aureola della martire stampata in fronte. Se una donna incinta sospira “L’ha voluto Dio”, Martina – vicepresidente del Centro – si squaglia”.
Non sono sufficienti solamente gli esercizi spirituali per risolvere i problemi, occorrono azioni concrete: non sarà una preghiera a far trovare una casa e un lavoro a chi ne ha bisogno.
E qual è la filosofia?
“Indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro”.
Bassa manovalanza e sottocosto, amicizie politiche e “favori”: così il Centro si è fatto strada.
Il presidente
La carica del direttore di tale istituto si delinea attraverso le sue stesse parole:
“Qui la legge sono io e si fa quel che dico io. […] Il capo non ha la fortuna del dipendente, che finito l’orario va a casa e manda il cervello in vacanza. Il capo ha solo grane”.
In altre occasioni, tuttavia, contraddice quanto sopra affermato:
“Siamo volontari, non sindacalisti. Bisogna dare di più. O fermarsi oltre l’orario di lavoro, o cedere una parte dello stipendio, o rinunciare alla quattordicesima. I Centri di volontariato fanno tutti così”.
Facile a dirsi se si dirige almeno una decina di enti, dai quali ci si assicura ingenti guadagni! Senza contare tutti i privilegi di cui gode: rimborsi spese, baby pensionamento, e auto, cellulare, pranzi, cure mediche spesati.
Le riunioni per “il capo” sono perdite di tempo, “illusioni della democrazia”. D’altronde per lui i dipendenti devono semplicemente essere sottomessi, non importa la loro onestà.
Vita e morte si intrecciano
La vera protagonista del romanzo è Teresa, che legge, attraverso i suoi vissuti, il Centro e le persone che incontra. La sua esistenza si imbatte in Anila, prostituta albanese, che decide di denunciare i propri aguzzini e cambiare vita, alla quale concede una possibilità e l’appoggio di cui ha bisogno.
La morte di Anila coincide con la nascita del figlio di Teresa, Luca, un figlio inizialmente non voluto, che fa allontanare il suo compagno e che viene criticato da Martina e dal presidente, perché concepito fuori dal matrimonio. Ad assisterla durante questo lieto evento non sarà sua madre, che apprende con rammarico la notizia, bensì quella di Anila, File, che è in Italia per il funerale della figlia, che, adolescente, ha venduto per qualche soldo.
Luca e le sue dimissioni dal Centro rappresentano per Teresa l’inizio di una nuova vita, lontano dall’oppressione che le causava quel luogo, disumano e a lei tanto estraneo.
L’immagine: la copertina del libro di Giorgio Morale.
Francesca Gavio
(LucidaMente, anno IV, n. 45, settembre 2009)