Era il 1947 quando nell’ex campo di concentramento di Fossoli si erano riunite le prime famiglie di sposi che avevano accolto fanciulli abbandonati e avevano dato origine al “popolo nuovo”. Erano per lo più giovani ragazze, che lasciavano tutto e tutti e diventavano “mamme di vocazione”. “Operando insieme in solidale fraternità cristiana, al fine di assicurare e diffondere lo stato evangelico dei liberi figli di Dio e di dedicarsi ad opere di bene, a sollievo materiale e ad elevazione spirituale dell’umanità”, secondo le parole del fondatore, don Zeno Saltini. Nasceva così ufficialmente, dopo gli inizi degli anni Trenta, la comunità di Nomadelfia.
Nomadelfia oggi
Essa ha sede nell’arida e pietrosa Maremma grossetana. Conta 340 persone aggregate in 50 famiglie, a loro volta divise in 10 gruppi familiari. Tutti i beni sono in comune. Non esiste proprietà privata, non circola denaro. Si lavora solo all’interno e non si è pagati. Si produce tutto: latte, formaggi, frutta, verdura, uova, carne, vino, olio. Per il resto ci si affida alla Provvidenza, usufruendo anche di donazioni. Altri introiti sono le pensioni (per lo Stato gli abitanti di Nomadelfia rappresentano una cooperativa di lavoro).
All’interno vi è un’azienda agricola, con cantina, frantoio e caseificio, un’officina meccanica, un laboratorio di elettronica, uno di idraulica, una sartoria, una falegnameria, una farmacia, degli ambulatori, una chiesa, un cimitero, un teatro, una sala convegni, le scuole, una sala riunioni, una biblioteca, una tipografia, un laboratorio di fotografia e i vari uffici amministrativi; e, ovviamente, le dieci abitazioni dei dieci gruppi familiari.
Il lavoro e la scuola
Il lavoro è fondato sulla compartecipazione e sul cooperativismo, e sul superamento del dualismo padrone-operaio. Non c’è carriera e tutti sono disponibili a qualsiasi tipo di attività. I lavori più pesanti e quelli più umilianti si fanno a rotazione. Il tutto è fatto con amore e senza la logica del guadagno.
La scuola è familiare. Gli insegnanti sono alcuni genitori e si chiamano “coordinatori”. Essa, inoltre, si definisce “vivente”, perché ogni momento della vita è scuola in quanto l’ambiente familiare, sociale e naturale nel quale i ragazzi vivono è di per sé educativo. Lo studio è obbligatorio fino ai 18 anni. Non esistono voti e non ci sono né promozioni né bocciature. I programmi sono sviluppati secondo le linee pedagogiche. Essi non prevedono lo studio dei classici della letteratura, non approfondiscono la matematica, e per quanto riguarda la Storia si concentrano su quella della comunità e su quella di Gesù. Anche la vita quotidiana è fortemente condizionata dai principi “evangelici”. No ai giocattoli, no alla musica, no ai libri, no ai fumetti, tv filtratissima e censurata, giornali selezionati (solo Avvenire e Famiglia Cristiana).
Gli unici contatti con il mondo esterno sono i diecimila visitatori all’anno e le “serate di Nomadelfia” nei mesi estivi, durante le quali ci si esibisce in spettacoli di danze e acrobazie in giro per le piazze italiane.
La proposta di vita
Questa è Nomadelfia oggi, “l’isola che c’è”. Così l’ha definita Stefano Gentili, ex presidente della Provincia di Grosseto. I suoi abitanti “rappresentano un monito severo verso il resto del mondo”.
Vivere lì, anche solo per due giorni, lascia più o meno quest’effetto. L’effetto di un’isola lontana da tutto. Pericolosamente lontana da tutti. Dura solo un attimo la meraviglia nell’osservare la capacità di aiutarsi l’un altro, l’incapacità di primeggiare sull’altro. Ma poi svanisce. E prevale una sensazione di prigionia che si legge sul viso dei ragazzini, un desiderio di evasione.
Sicuramente quello pedagogico è uno degli aspetti più interessanti e anche critici. Don Zeno raccontava così Nomadelfia e la sua proposta: “Si tenta di liberare l’uomo da tutte quelle sovrastrutture che fino a oggi lo hanno sempre ridotto a crescere e a diventare quello che non vorrebbe essere”. Questa frase potrebbe riassumere un po’ tutto il pensiero della comunità, e allo stesso tempo racchiude quelle che potrebbero essere le sue contraddizioni, scatenando degli interrogativi legittimi.
Non è forse una sovrastruttura impedire che una ragazzina legga una poesia o conosca la Storia o giochi con una bambola o guardi un film? E soprattutto come può un cittadino di Nomadelfia poter anche lontanamente affermare di essere cresciuto e diventato quello che ha voluto essere? E ancora: la fratellanza può essere imposta o dovrebbe essere una conquista dell’uomo? Il nome stesso della comunità è molto significativo: “Nomadelfia, dove la fraternità è legge”.
L’aspetto pedagogico
Una prova concreta potrebbe essere data dal fatto che, raggiunti i diciotto anni di età, quindi l’età necessaria per poter decidere della propria vita, la quasi totalità dei ragazzi lascia la comunità e vive una nuova esistenza, in quella società che avrebbe dovuto essere per loro un mostro spaventoso, ma che in realtà si presenta come un dolce e irresistibile canto delle sirene, al quale è impossibile dire di no.
Si potrebbe sbandierare questa scelta come principio e prova evidente della libertà che si respira a Nomadelfia. Tuttavia, a 18 anni la mente di un ragazzo è già formata, compromessa. Jean Piaget, padre e fondatore dell’epistemologia genetica e dello studio dei processi cognitivi legati alla costruzione della personalità, sostiene che i primi otto anni di vita sono i più importanti per lo sviluppo della personalità, e i primi quattro in particolare lo sono in modo fondamentale e irreversibile. Viene, dunque, da pensare quando l’insegnante Maria dice: “I ragazzi sono come delle piantine: da piccoli vanno protetti dalle intemperie, poi crescono diventano forti e possono sopravvivere da soli”.
Come potrà reagire il bambino quando la bolla di vetro costruita “delicatamente” intorno a lui si romperà improvvisamente a 18 anni?
L’aspetto culturale
Sorge spontaneo chiedersi se è censurando e selezionando la cultura che si potrà “guarire” l’uomo. O forse, così facendo, si creeranno soltanto dei vuoti, delle lacune, e soprattutto una visione non realistica del mondo, ma fortemente alterata? Don Zeno diceva: “Siamo corresponsabili della tragedia dell’umanità. Siamo stati dei lazzaroni, dei falliti e dobbiamo dirlo ai nostri figli, perché non ci seguano e non ci imitino”. Come si può sperare che i nostri figli possano “non seguirci e non imitarci”, che possano “non fallire”, e che si adoperino per costruire un mondo migliore, se vengono privati della conoscenza e del sapere?
Dice Maurizio, una delle figure più importanti della comunità: “I classici non rispettano le esigenze di un ragazzo. Solo più tardi, se lo vorrà, potrà studiare tali autori”. E ancora: “La Storia non la insegniamo assolutamente ai nostri figli, non esiste nel nostro programma di Storia, non so, il Risorgimento, le guerre puniche, i Romani, Napoleone […]. La Storia è la storia della realtà sociale in cui si vive”. Come si può sperare che un nostro figlio possa cambiare la società con questi presupposti?
“Noi non dobbiamo correre il rischio che i giovani che abbiamo educato nell’ignoranza si diano con grande piacere alla malvagità, non appena ne scoprano l’esistenza. Se non creiamo in loro un’avversione per la crudeltà, non potranno evitarla, così come non potranno averne avversione fino a che non ne conoscano l’esistenza” (Bertrand Russell, L’educazione del bambino e dell’adolescente).
Ritorno al passato
A questo punto sorge il dubbio che Nomadelfia non sia una proposta per il futuro, non sia un rinnovamento; ma un ritorno al passato, non quello più recente, spesso, e un po’ irragionevolmente, ricordato come un’epoca di sani principi e di integrità morale, ma quello più remoto, più “barbarico”, insomma l’epoca dei vangeli, a cui la comunità si ispira. Sicuramente un atto eroico, profondo. Di vera fede. Ma ispirarsi al Vangelo vuol dire ispirarsi a una società antica di due millenni, con la cultura, la mentalità, le idee premedievali… “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (Prima lettera a Timoteo). Questo è il Vangelo; queste erano le prime comunità cristiane; o, perlomeno, anche questo. Ispirarsi a un testo, per quanto “illuminato”, vecchio di venti secoli, e modellare la propria comunità secondo ciò che questo testo racchiude è un gesto quanto meno azzardato!
Nomadelfia e il mondo
Quanto potrebbe imparare il mondo da Nomadelfia? Certo, non si può che provare piacere nel vedere i ragazzini “liberi” dal cellulare, dalla playstation, dalla chat, dai reality, dalla televisione in genere, dal calcio, da tutti i frutti di una società fondata sulla pubblicità, sulla moda e sul consumismo.
Ma quanto Nomadelfia fa effettivamente per il mondo?
L’immagine: la croce di Nomadelfia.
Simone Jacca
(LM MAGAZINE n. 4, 15 settembre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 33, settembre 2008)