Intervistare Filomena Campus, jazz vocalist, perfomer e regista teatrale, assume per me un significato particolare: Filomena viene da dove vengo io, le radici sono le stesse, forse anche le delusioni sono le stesse, un luogo dove tanti sono gli stimoli storici e culturali e poche le occasioni, dove la natura e la storia ti mettono a disposizione secoli di cultura e dove invidia e ristrettezza mentale bloccano a volte una carriera artistica o universitaria perché non sei “abbastanza” per loro, sei scomodo se non pensi in un certo modo, semplicemente perché non sei etichettabile.
È in quel momento, forse, che il “sardo” diventa di cuoio: non si abbatte, va avanti, diventa un pangolino, elegante creatura protetta da una pelle d’acciaio che ricorda i versi di Marianne Moore. Questo pangolino gira il mondo e piano piano misura le distanze, scruta l’orizzonte, studia, si mette alla prova, non si guarda mai troppo indietro, non si fa troppi complimenti e macina strada. Così io vedo Filomena Campus, regista, cantante jazz, amica e maestra che ha condiviso con me anche una bella litigata: fin dal 1990 ha studiato jazz con artisti di primissimo piano come Paolo Fresu, simbolo del jazz nel mondo, Maria Pia De Vito, signora della ricchezza vocale, Ralph Towner, chitarrista e musicista il cui eclettismo sono ben noti, e infine – doveroso nominarli – Pierre Favre, Norma Winstone e Sheila Jordan. Da allora Filomena ha percorso tanta strada, e tanta, ci scommetterei, intende ancora percorrerne: ha fondato un gruppo teatrale, Theatralia, ha studiato, sperimentato e giocato con la voce, i suoni e la fantasia fino a dare vita a uno spettacolo tutto suo, nel corso del quale le sue varie abilità, al confine fra voce, anima e regia, prendono vita grazie al rigore dell’improvvisazione… perché anche per improvvisare bisogna essere preparati.
Filomena, quando il tuo primo incontro con la musica?
“Da quando sono nata… ho sempre avuto una certa sensibilità per le note, già da neonata mia madre dice che mi agitavo quando sentivo musica…”.
Nel 2000 il primo ampio progetto intitolato A Game of Chess, ispirato a James Joyce, Samuel Beckett e Thomas Stearns Eliot. Ce ne puoi parlare?
“E’ stato il primo esperimento che univa i miei lati artistici, in cui la mia passione per il teatro, per la letteratura (in particolare per chi ha avuto il coraggio di inventare un nuovo linguaggio, come i modernisti) e ovviamente i mio jazz ha trovato forma in uno spettacolo cross art, e credo che il mio ultimo spettacolo (Misterioso) sia frutto di quei primi tentativi. Non esiste una definizione (è teatro? Musica? Letteratura? Multimedia?), credo che Theatralia sia la definizione più azzeccata”.
Poi il tuo trasferimento a Londra: perché?… E cos’hai trovato lì?
“Sono andata a Londra dopo un periodo in cui la mia adorata Cagliari iniziava a starmi un pochino stretta in termini artistici, e una persona in particolare, Laura Sanna, allora docente di letteratura inglese all’Università di Cagliari, mi spinse in maniera incredibile a fare un anno a Londra per un master in regia teatrale. Pensavo che sarei tornata a Cagliari per creare un laboratorio stabile di sperimentazione teatrale in facoltà. Non è successo. Forse è stato un bene, anche se allora mi dispiacque molto, perché ero cosciente di quanto talento ci fosse tra i giovani e di quanta sete di imparare e confrontarsi con altre culture e altre tecniche”.
Nel 2006 e nel 2007 hai ricevuto un prestigioso riconoscimento dall’Arts Council England per Misterioso-A Journey Into The Silence Of Theloniuos Monk (per essere chiari: testi di Stefano Benni, nel 2008 all’Edinburgh Festival… cose da far girare la testa!), prodotto dal tuo gruppo Theatralia, da te fondato. Ma cos’è Misterioso? Ce lo racconti?
“Misterioso è innanzitutto un testo bellissimo di Benni sulla musica e la vita di Monk, un pianista geniale e rivoluzionario che creò una musica e un suono talmente unici, originali, da non essere capito a volte nemmeno dai suoi contemporanei e colleghi. Era considerato una persona un po’ “strana” e ha sofferto in maniera travolgente perché consapevole del proprio valore… ma con una dignità talmente grande da non accettare mai compromessi o fare altri lavori quando gli impedirono di suonare per sette anni a New York. Un esempio di coraggio, genio, originalità e umanità che dovrebbero essere d’esempio in un momento così povero di valori e ricchezza morale”.
I “tuoi” artisti sul palco di Misterioso sono Toni Kofi, Jean Toussaint, Rowland Sutherland, Antonio Forcione e Buron Wallen, tuttavia… nonostante questa cartuccia esplosiva di professionisti della musica jazz – che ha fatto esclamare al Times “a crime to miss it” – pare che un giornalista, sentendo le note del McCarthy Blues (che ricorda e mette in guardia dagli anni dolorosi della caccia alla streghe negli Usa), abbia storto la faccia: secondo te, cosa c’era che non andava?
“Un giornalista del Times ha scritto cose terribili su Misterioso, dicendo che non bisogna ascoltare il testo ma solo la musica… sfido chiunque a leggere le pagine di Benni e non sentire l’emozione e la bellezza di quei versi. Forse in inglese perdono la loro sonorità e bellezza originale, ma credo che parlare non proprio bene di McCarthy e proiettare frasi di Allen Ginsberg non abbia fatto piacere al critico, notoriamente di destra… che dobbiamo fare? I miei maestri sono Dario Fo, Franca Rame, Augusto Boal, Judith Malina… hanno tutti pagato per non avere abbassato la testa e per avere continuato a portare avanti il loro messaggio, come i giullari. Io mi sento un clown come loro, nel senso splendido e autentico di questa parola. Sono loro a darmi il coraggio di andare avanti, nonostante le enormi difficoltà a crearmi uno spazio in una città come Londra, senza il minimo supporto da parte delle istituzioni italiane (il direttore dell’Istituto italiano di cultura a Londra ha rifiutato di sponsorizzare tre settimane di repliche ai prestigiosi Riverside Studios (dove lavorarono Beckett e gli stessi Dario e Franca!). Devo dire che ho avuto comunque il supporto morale del Consolato e dell’Ambasciata italiane”.
La storia d’amore fra Monk e Pannonica Rotschild, the jazz baroness (permeata di passione, passione che va contro i pregiudizi e contro il razzismo) è lo sfondo del tuo Misterioso, ma la cornice è fatta di sonorità corali che cercano di esprimere un’intera epoca e una voce, tutta jazz e anima, di uno dei più grandi pianisti della storia della musica jazz. Quale musicista italiano possiamo paragonare a lui?
“E’ davvero difficile trovare un paragone a Monk. A Londra posso citare diversi nomi, tra cui lo stesso pianista a cui ho chiesto di interpretare Monk, Pat Thomas, che, oltre a somigliargli in maniera impressionante, ha un approccio alla musica decisamente geniale a non convenzionale. Un altro nome è Orphy Robinson, compositore magnifico e grande vibrafonista, ospite di Misterioso. In Italia ci sono meravigliosi musicisti, non saprei da dove iniziare. L’approccio alla vocalità di Maria Pia De Vito è per me un esempio continuo e forte, diverso dal solito luogo comune della cantante jazz che canta jazz standard e non sa improvvisare. Da Maria Pia ho imparato a usare la voce come uno strumento, e a sviluppare un suono unico e originale, a rischiare e ad esplorare, esattamente come continuo a imparare ascoltando Monk”.
Hai ricevuto il Premio Maria Carta nel 2009. Che significato ha avuto per te?
“E’ stata una grande emozione, perche comunque le mie radici sarde sono fortissime e stando fuori per tanti anni l’orgoglio nuragico cresce. E’ stato il primo riconoscimento da parte della mia Isola dopo quasi venti anni di lavoro artistico. In Sardegna sono molto bravi a invitare artisti stranieri ai festival e alle manifestazioni più importanti, dimenticando i talenti che ci sono nell’Isola e spesso costringendo gli artisti a un esilio artistico non sempre facile da accettare. Ho riscoperto Maria Carta, ho letto un suo splendido libro e scoperto una donna meravigliosa, che mi ha reso ancora più orgogliosa di avere ottenuto un premio con il suo nome”.
Parliamo di cose difficili. Una l’abbiamo già detta, superare il divario che separa un’artista del Sud dalle opportunità del Nord, ma ci sono anche altri tipi di difficoltà alle quali si può andare incontro. Per esempio: è ancora difficile essere donna nel mondo della musica e del teatro?
“Sì, ma a Londra meno che in Italia. Il lavoro dell’artista a Londra è preso assolutamente sul serio; sia come regista che come musicista jazz mi sento non solo accettata ma stimata… davvero una bella sensazione! Esiste un grande rispetto. Esiste anche la meritocrazia, che credo si sia estinta da parecchi anni in Italia, dove l’assurdo cliché maschilista della donna che fa carriera solo sfruttando l’aspetto esteriore e mai il talento o l’intelligenza è ormai diventato quasi un assurdo orribile merito e grottesco esempio per le giovani. Mi rattrista molto. In Inghilterra è sicuramente complicato, faticoso farsi strada in un mondo che in realtà anche qui è governato da maschi, in particolare nel teatro e nella musica jazz (non si vedono molte donne suonare bebop o free improvisation o occuparsi di regia), ma è possibile farcela. Ci vuole una dose di testardaggine sarda non da poco!”.
Fra le cose difficili, il libero pensiero (è significativo che lo si ponga in questa categoria): quanto è difficile arrivare alla propria meta con la sola forza delle proprie idee? Cos’è che infastidisce di più, secondo te, in un libero pensatore? Le sue idee o il fatto che le esponga liberamente?
“Sicuramente il fatto di esporle senza filtri e senza strumentalizzazioni da una parte o dall’altra. Io sono un’artista e non mi interessa fare politica. Allo stesso tempo credo fortemente che il teatro sia anche politica, che riguarda la vita, la società, e solo i giullari a volte riescono a far vedere le cose come stanno, attraverso una risata, che è una forma di intelligenza e spirito critico, come Fo e Benni insegnano. Mi sembra che in Italia ci sia ormai paura di ridere, paura di parlare, di esprimere le idee”.
Giochiamo per assurdo: domani facciamo insieme un viaggio nel tempo e incontriamo Mozart, come gli spieghi cos’è il jazz?
“Credo che Mozart sarebbe un jazzista fenomenale, Potremmo chiedergli: “Ehi, Amadeus, che ne dici di tenere gli stessi accordi dei tuoi pezzi, che ormai suoniamo da secoli nello stesso modo, cosi come gli hai scritti tu, e provare a creare nuove melodie improvvisandoci sopra?”. Ho l’impressione che ci darebbe parecchio filo da torcere e sarebbe difficile stargli dietro… E credo anche che lui e Monk sarebbero best friends e metterebbero su una band. I nomi Thelonious e Amadeus suonano bene insieme, nel paradiso degli angeli ribelli musicisti”.
Cosa risponderesti alla pasionaria del jazz Pannonica Rotschild se ti chiedesse quali sono i tuoi tre desideri?
“In realtà mi sento un po’ una piccola jazz baroness nella mia voglia di vedere il jazz e i fantastici musicisti che lo suonano finalmente riconosciuti nel loro valore e talento, invece che continuare a faticare mentre tante piccole finte pop star create in laboratorio hanno le risorse che noi jazzisti ci sogniamo… Tre desideri hai detto?… Forse più di tre, se posso. Che le armi, la violenza, la pena di morte, l’avidità e l’ignoranza spariscano improvvisamente. Che gli artisti e veri musicisti vengano finalmente riconosciuti per il loro talento e avessero a disposizione risorse e tempo per la loro creatività invece di dover insegnare o fare altre cose per sopravvivere. Il terzo è privato!”.
Infine: grazie per l’intervista
“Grazie di cuore a te per queste domande sincere, intelligenti, interessanti. Felice di averti ritrovato!”.
Lo sfondo musicale, per chi non lo sapesse, è quello del tuo myspace… Grazie!
Riferimenti telematici:
Theatralia@theatralia.co.uk
www.theatralia.co.uk
www.filomenacampus.me
L’immagine: Tamsin Shasha durante lo spettacolo Misterioso, A Journey Into The Silence Of Theloniuos Monk, Riverside Studios, London (foto di Helena Dornellas e Richard Kaby).
Matteo Tuveri
(LM EXTRA n. 17, 10 novembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 47, novembre 2009)
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