La notizia della morte di un famoso produttore tv, il 4 settembre scorso, ha riportato l’attenzione mediatica sulle condizioni di violenza del paese centroamericano
È stato trovato morto nel bagagliaio della sua auto, trivellato di colpi, a San Bartolomé Actopan, zona tra le peggiori del Messico quanto a violenza e numero di vittime. Carlos Muñoz Portal, 37 anni, era un fotografo freelance e produttore, tra l’altro, di Narcos, serie tv targata Netflix che racconta le storie dei cartelli del narcotraffico più potenti nella storia del Sudamerica, e che nella quarta stagione probabilmente inscenerà la storia del cartello messicano di Juarez.
Muñoz Portal si trovava in Messico, al confine con lo stato dell’Hidalgo, proprio per cercare e fotografare location per l’ambientazione della nuova stagione. Le circostanze del suo omicidio hanno ricordato una delle tante scene simili che si vedono nella serie, e proprio per questo la notizia della sua morte è rimbalzata tra le testate mondiali, riaprendo il dibattito sulle situazioni di un paese definito “narcocratico”, con un significativo neologismo che pone l’accento sul controllo che da decenni esercitano i cartelli della droga in quelle zone. Di morti come quella di Muñoz Portal, il Messico ne vede quotidianamente, portandosi addosso il macigno di essere un paese con un tasso di mortalità violenta tra i più alti al mondo (leggi anche Narcos 3, uno dei produttori della serie massacrato in Messico).
Secondo i media locali, nella regione in cui è stato ucciso il produttore si sono verificati circa 104 mila omicidi solo negli ultimi cinque anni –16 mila solo nei primi mesi del 2017 – e a queste cifre va aggiunta quella delle decine di migliaia di “desaparecidos”, persone scomparse che non sono mai state ritrovate. Di queste morti e sparizioni, si stima che nove su dieci siano state compiute per mano dei narcotrafficanti (vedi anche, sempre su LucidaMente, Messico e nuvole? Sole, mare e droga).
Nel dicembre 2006, l’allora presidente messicano Felipe Calderón determinò l’intervento permanente dell’esercito nel Paese, come misura per contrastare il narcotraffico dilagante. Strategia che a conti fatti si è tuttavia rivelata fallimentare, perché ha dato inizio a un’efferata “guerra della droga”, che vede scontri continui tra cartelli e forze armate del governo, e non ha eliminato le faide tra cartelli rivali. La violenza è uno dei mezzi attraverso cui i narcos dichiarano la loro potenza: spaccio e omicidi avvengono il più delle volte sotto gli occhi di tutti, anzi a monito di tutti. Non è raro, ad esempio, che i cartelli espongano nelle piazze le teste mozzate di chi hanno ucciso per mandare un messaggio alla popolazione, o a individui mirati.
In questo modo esercitano un’influenza crescente nella società, e tengono sotto scacco la classe politica del Paese, essendo strettamente connessi con i più alti livelli dell’apparato statale e dell’imprenditoria (vedi anche Viaggio nel Messico dei narcos). Il problema principale del Messico è la povertà: la disoccupazione è altissima e molti giovani vedono nel narcotraffico la possibilità di avere delle aspettative economiche decisamente più alte di quelle che un lavoro onesto nel Paese offre, sicché vengono reclutati come sicari.
Anche le donne svolgono un ruolo fondamentale nello spaccio e nel trasporto di armi, poiché sono ritenute meno sospettabili degli uomini. In un’intervista per ofcs.report del marzo 2017, un giovane messicano dichiarava: «La violenza in Messico finirà quando non farà più comodo ai potenti, Usa inclusi». In quest’ambito, infatti, occorre sottolineare quanto le misure prese dagli Stati Uniti nei confronti del Messico, specie quelle che si prospettano con l’attuale amministrazione di Donald Trump, incidano pesantemente – e negativamente – sulla situazione del Paese centroamericano. La strategia della costruzione di una barriera di separazione tra Usa e Messico, del cui ampliamento Trump ha fatto un punto cardine nella sua campagna elettorale alle presidenziali, si è rivelata una falsa illusione come misura antinarcos.
Il muro, che esiste già dai primi anni Novanta per un terzo del confine tra i due Paesi, non ha infatti fermato le attività del narcotraffico, né per quanto riguarda la droga – la coca sudamericana, di cui il Nord America è il maggiore consumatore al mondo – né per quanto riguarda il denaro illecito che i cartelli “ripuliscono” reinvestendolo nelle banche statunitensi ed europee attraverso diversi meccanismi di transazione, che un muro fisico non può fermare (leggi anche Saviano: il muro di Trump non fermerà il narcotraffico).
La barriera è fonte di ricchezza per il narcotraffico anche per quanto riguarda il fronte dell’emigrazione. La tratta dei clandestini che tentano di attraversarlo per arrivare negli Usa è infatti controllata dai “coyotes”, trafficanti collegati ai narcos, che ricevono una somma per consentire agli immigrati di lasciare il Paese. Nel caso in cui qualcuno di questi non disponga del denaro necessario, è costretto a diventare un corriere della droga, trasportando nel proprio bagaglio stupefacenti che, una volta arrivato negli Stati Uniti, affiderà ad altri affiliati dei cartelli. Per non parlare del traffico illegale di armi – si stima una cifra di circa 2.000 al giorno – che dal Nord America arrivano direttamente nelle mani dei cartelli. Ma nei traffici illeciti non sono coinvolti solo gli Usa.
Anche l’Europa è utilizzata come meta per il riciclaggio degli illeciti provenienti dal narcotraffico. E l’Italia merita un denigrante posto di rilievo nell’aiuto ai cartelli messicani: si ritiene ormai da anni che organizzazioni criminali come la ’ndrangheta e la camorra abbiano contribuito a fare del Messico il paese numero uno per traffico di droga. Si stima infatti che dalla nazione latinoamericana gli stupefacenti arrivino in Usa e in Africa e dall’Africa all’Europa. E che quest’ultimo movimento sia controllato dalle mafie italiane.
Sara Spimpolo
(LucidaMente, anno XII, n. 143, novembre 2017)