La località messicana è tristemente nota per essere la capitale dei femminicidi. Qui, una società profondamente sessista e autorità corrotte non aiutano le vittime di violenze e torture, in crescita da anni
La città che uccide le donne ‒ questo il nome che Ciudad Juárez si è guadagnata fra i messicani ‒ si trova nello Stato del Chihuahua, al confine con gli Stati uniti. Centinaia di operaie vi accorrono ogni giorno per andare a lavorare nelle maquilladoras, le industrie di montaggio che molte imprese americane hanno ubicato lungo la frontiera con il Messico per usufruire della sua conveniente manodopera.
Oltre a essere sfruttate e sottopagate, le giovani devono correre un rischio quotidiano: quello del tragitto verso la fabbrica, in cui molte di loro vengono sequestrate, violentate e ammazzate. Il fenomeno è talmente frequente che vi è una collina dedicata alla sepoltura dei corpi, su cui campeggiano centinaia di croci rosa. La strage è iniziata negli anni Novanta, quando per la prima volta i resti di una donna vennero ritrovati nel deserto, e da allora prosegue indisturbata, senza che se ne conoscano gli autori. Non è raro trovare, nei quartieri più isolati e poveri, i cadaveri mutilati di adolescenti o bambine, abbandonati in fosse o discariche dai killer (La città che uccide le donne, Limes). A raccontare questa preoccupante realtà anche il film Bordertown (2006), tratto da una storia vera, in cui una giornalista documenta gli orrori commessi da quello che le ragazze chiamano “El diablo”. Durante la narrazione emerge il comportamento delle Forze dell’ordine, che tentano di insabbiare e ridurre l’entità della vicenda anziché perseguire i carnefici, venendo meno al loro compito di proteggere le donne. Avere dei dati precisi sulle vittime è molto complesso, sia perché tante di loro sono ancora disperse, sia perché la polizia messicana non collabora efficientemente nelle indagini.
L’attivista per i diritti umani María Salguero ha provato a mappare i femminicidi facendo emergere che, sebbene resti una delle zone più pericolose, il problema non riguarda solo Ciudad Juárez ma tutto il Paese: a partire dal 2011 si sono infatti registrati oltre 6.000 casi. Si calcola inoltre che in Messico vengano uccise una media di dieci donne al giorno, di cui solamente tre sono riconosciute oggetto di femminicidio (lo afferma la Repubblica).
Cifre impressionanti, che spingono a chiedersi il perché di tanta ferocia. Ma la risposta potrebbe non essere solo nella presenza di diablos in giro per le degradate strade messicane: un mostro altrettanto temibile risiede nella concezione della donna, che viene da molti ancora vista come un oggetto di cui si può disporre e disfarsi a proprio piacimento. Il termine femminicidio si riferisce a una forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale. Il suo scopo è di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità dell’essere femminile attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Non è così assurdo, dunque, che un atto tanto grave e brutale, spesso relegato alla perversione di qualche folle, sia in realtà figlio di una mentalità diffusa.
Il maschilismo la fa ancora da padrone in Sud America, dove non a caso si trovano 14 dei 25 Stati primi al mondo per questa specifica tipologia di crimine. Altro fattore determinante è la quasi totale impunità riservata ai delinquenti: al dicembre 2018, erano classificati come fuggitivi 4.000 assassini. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei delitti commessi è tuttora irrisolta e non vi è la prospettiva di una pena sicura che scoraggi le uccisioni.
Come già detto, il sistema di sicurezza risulta corrotto e poco preparato ad affrontare la questione. La guerra al narcotraffico ha legittimato un utilizzo smodato della violenza da parte dei pubblici ufficiali messicani, i quali spesso ricorrono alla tortura per estorcere confessioni a persone innocenti o per assicurarsi l’appoggio della popolazione locale, coprendo le spalle ai veri colpevoli. In alcuni casi, le ragazze stesse sono accusate di aver provocato gli istinti maschili con ammiccamenti e abiti provocanti. Anche le tantissime che subiscono molestie sessuali (si calcola circa 6 su 10) sono restie a rivolgersi alla polizia, visto il timore di ritorsioni da parte del loro persecutore, che viene spesso liberato in breve tempo. Insomma, si cerca in tutti i modi di distogliere l’attenzione da quella che è un’evidente passività da parte del governo e sembrerebbe anche che ci si riesca, viste le scarse precauzioni prese fino ad ora nel contrastare il fenomeno. Le donne messicane però non ci stanno e fanno sentire la propria voce scendendo in piazza al grido di #UnDìaSinNosotras.
Il loro primo sciopero nazionale, tenutosi il 9 marzo, aveva appunto lo scopo di far comprendere quale sia realmente il ruolo e l’importanza della figura femminile all’interno della società. Tale dissenso si aggiunge a quello delle argentine del #NiUnaMenos, che dopo il 2016 ha conosciuto l’adesione di altri Paesi guadagnandosi l’attenzione mediatica mondiale. Ed è così che il coro diviene sempre più forte, il movimento sempre più potente e il cambio di direzione – si spera – sempre più vicino.
Le immagini: la collina a Ciudad Juárez dedicata alle vittime, piena di croci rosa (da wikipedia.org, di pubblico dominio); la mappa dei femminicidi (da Voci Globali); donne che scioperano (da AgenSir).
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)