Avventura, natura, umanità, esoterismo: ecco gli ingredienti perfetti del romanzo “Il canto del delfino” (Sovera edizioni) dello scrittore-navigatore Miro Iafisco
Estate. Tempo di mare. Tempo di sognare interminabili, avventurosi viaggi in barca lungo rotte sconosciute, immersi tra l’azzurro del cielo e quello delle acque sconfinate. Un romanzo ambientato per buona parte sul mare, anzi sull’oceano, è Il canto del delfino (Sovera edizioni, Roma, 2013, pp. 224, € 13,50) di Miro Iafisco. Un’opera imperniata su natura e atavici valori umani, ricca di colpi di scena e di ingredienti esoterici.Il nostro direttore Rino Tripodi ne ha curato la Prefazione (Il viaggio mistico del comandante Torres), che riportiamo di seguito per intero. Peraltro, al suo interno, vengono riportati ampi brani del romanzo (colorati in violetto), i quali, così, potranno essere apprezzati dai lettori.
La cosiddetta “narrativa di mare” può considerarsi un sottogenere della narrativa di viaggio, a sua volta ramificazione della più ampia narrativa d’avventura. Sugli oceani hanno collocato le loro storie giganti del romanzo e del racconto come Joseph Conrad, Rudyard Kipling, Jack London, Herman Melville, Robert Louis Stevenson.Nel caso de Il canto del delfino di Miro Iafisco – già autore di Ho bisogno di ascoltare il mare (Mnamon) – vi è un’ulteriore contaminazione con altri generi letterari, quali l’esoterico, il fantastico, l’horror, il romanzo di formazione…
L’amore per il mare (e per la navigazione) Tuttavia, è palese che il vero protagonista di questa ulteriore fatica dello scrittore sia ancora il mare. Del resto, la stessa biografia di Iafisco è testimonianza vivente del suo contatto costante con il “sesto continente”, del suo amore per il pianeta azzurro. Esso trapela da brani come il seguente: «L’acqua in quel punto aveva il colore dello smeraldo e i raggi del sole riflettevano sulle piccole onde come tanti minuscoli brillanti. La trasparenza del mare permetteva di vedere il fondo roccioso fino a venti metri. Branchi di pesci indisturbati volteggiavano intorno alla catena dell’ancora, alcuni di loro riuscivano perfino a saltare fuori dell’acqua. Era uno spettacolo della natura indimenticabile». Il personaggio principale de Il canto del delfino, lo scienziato-navigatore Guglielmo Torres, acquisisce questa passione per la bellezza del mare molto presto, fin dall’infanzia, e la dilata per tutta la propria vita: «In quel meraviglioso posto di mare, poco distante da Genova, aveva vissuto i momenti più belli con la sua famiglia. Lui, Jenny e Jacopo passavano intere giornate a rincorrersi sulla spiaggia o a cimentarsi nella corsa in bicicletta lungo il litorale. Poco distante dal mare, nell’unico cantiere esistente era stato tirato in secco il veliero Sonia Maria. Era la barca che Guglielmo aveva utilizzato per le sue ricerche scientifiche in tutti quegli anni. Il Sonia Maria era un veliero che apparteneva alla famiglia Torres fin dal lontano 1950. In quegli anni la famiglia Torres viveva tra Siviglia e Barcellona per i numerosi impegni di papà Pablo con la Marina spagnola. Quando dal comando per le ricerche scientifiche era venuto l’ordine di eliminare il veliero dalla flotta mettendolo sul mercato, l’ingegner Torres non si fece scappare l’occasione e, senza esitare, lo acquistò. Ci vollero due anni di intenso lavoro per renderlo perfetto come nel giorno del suo primo varo. L’esperienza del padre di Guglielmo era stata determinante per trasformarlo in un antico e affascinante veliero all’esterno, ma in una potente e tecnologica struttura nel suo interno. Quando Pablo morì chiese al figlio di conservarlo più di ogni altra cosa della famiglia. Guglielmo aveva vissuto la barca sempre indirettamente perché suo padre l’amava così tanto da impedire a chiunque di viverla in modo profondo. Il giovane ci aveva passato molto tempo della sua adolescenza e dalla dolorosa morte del genitore aveva imparato ad amarla quanto la amava lui. Dopo il matrimonio con Jenny l’aveva trasferita a Genova, traversando il Mediterraneo. Quel lungo percorso fu per Guglielmo un vero e proprio battesimo della sua prima navigazione. Dalla sua memoria non si sarebbe mai cancellato il fascino della costa ligure in avvicinamento e l’arrivo al porto di Genova sotto lo sguardo curioso dei turisti e degli addetti ai lavori portuali. Restavano incantati tutti davanti al Sonia Maria mentre ammainava le potenti vele, solcando le acque del porto con la sua maestosa presenza. Quel quadro gli era rimasto impresso e ogni volta che ritrovava il suo veliero lo vedeva come una divinità che lo stava aspettando».In questo brano, collocato all’interno della parte iniziale del libro, troviamo alcuni dei motivi dell’opera: il rapporto padre-figlio, l’incanto del mare, il fascino delle imbarcazioni, il contesto della città di Genova.
La contrapposizione mare/terraferma (e Pavese) Il canto del delfino presenta una costante alternanza di due luoghi entro i quali si dipanano le vicende narrate: la terra e il mare. Non si tratta solo di spazi, di cronotopi narrativi, di sfondi, bensì di due realtà in insanabile contrapposizione. La terraferma, ovvero la città, è caratterizzata da spazi chiusi, dalla presenza – a volte fastidiosa, se non tormentosa – degli esseri umani, da edifici artificiali. È il luogo delle relazioni sociali, dei rapporti di potere (si veda, ad esempio, la figura del rettore Alfredo Damiani), della burocrazia, dell’inautenticità (si leggano con attenzione le descrizioni della finzione radiotelevisiva, l’implicita critica alla “società dello spettacolo”). Il mare, anche se vissuto necessariamente attraverso il mezzo delle imbarcazioni, è il topos della libertà e della purezza: gli spazi sono aperti, l’aria è pulita, traspare l’ordine della natura, la bellezza. Se la terra è il luogo delle costrizioni, degli intrighi, il mare è sì mistero, ma è uno spazio aperto, ricco di ogni possibilità, così come è libero e sconfinato il suo orizzonte, non interrotto da mostri di cemento, né intralciato da automobili e da mille ingabbianti regole. Si crea così una sorta di contrapposizione mare/terra che in qualche modo ricorda quella, campagna/città, che si riscontra nella narrativa di Cesare Pavese. Nello scrittore piemontese, la campagna, il paese, la provincia, sono luoghi mitici, seppure aspri e amari, significanti la natura, la purezza, l’innocenza primigenia. La città, la grande metropoli – Torino –, invece, rappresenta la civiltà, la corruzione, l’ipocrisia: «L’arte trarrà alimento ovviamente da questa condizione dell’uomo e metterà in luce l’elemento per così dire negativo, cioè la banalità e la non autenticità del vivere cittadino, ma soprattutto mirerà – e sarà questo il suo elemento “positivo” – al recupero dei miti dell’infanzia, all’espressione del loro potenziale simbolico» (Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento. Profilo letterario e antologia, 4ª ed., Principato, Milano, 1987, p. I/305). Peraltro, forse non è un caso che Pavese, uomo e narratore lontanissimo – geograficamente e psicologicamente – dal mare, scriva una poesia come I mari del Sud. Attraverso i ricordi del cugino – infelice perché tornato nelle Langhe dopo aver lavorato in imbarcazioni in viaggio negli oceani – attraverso forse le reminiscenze letterarie, anche lo scrittore piemontese rimane affascinato dal mare, dall’avventura nelle sconfinate praterie azzurre: «Solo un sogno gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. Me ne accenna talvolta. Ma quando gli dico ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora sulle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro»(Cesare Pavese, Poesie. Lavorare stanca. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Introduzione di Roberto Cantini, Mondadori, Milano, 1976, p. 20).
I simbolismi Il mare è dunque il luogo dei simboli. Simboli molteplici, ampi e profondi. Il mare in generale, del resto, è il simbolo dei simboli, in quanto rappresenta, se non altro per le sue caratteristiche di profondità e di vitalità, l’inconscio umano. Il romanzo di Iafisco è riccamente costellato da simboli, premonizioni, profezie (come quella di Donna Esmeralda), magiche, baudelairiane corrispondenze: affascinanti quanto inquietanti richiami del sovrannaturale, dell’aldilà, di una dimensione “altra”, spirituale, ove si può trovare la risposta ai propri interrogativi e alle proprie pene esistenziali, ma anche spavento, angoscia e orrore. Il percorso del personaggio principale, Torres, alla ricerca di un responso profondo alla propria pena esistenziale, è costellato di frammenti di luce, di dissolvenze, di pieghe misteriose all’incrocio materia-spirito, come in una carta geografica ben disegnata, ma che pure risulta incomprensibile, misteriosa, sfuggente, polisemica. All’improvviso irrompono trepidanti trasalimenti, imperscrutabili messaggi, frazioni epifaniche: «Quando ormai è quasi l’alba, si alza per aprire la finestra: lo sguardo si perde nell’immensità dell’universo, cercando tra le stelle un messaggio subliminale in grado di recargli conforto e amore. Fra queste, un gruppo di creature luminose sembrano essere lì in mezzo all’universo per trasmettere intensi riflessi biancastri. È una strana costellazione dall’apparente forma di un delfino. La sua mente viaggia insieme alle stelle, una voce che viene dalla sua anima lo incita a seguire quel segno. Le parole echeggiano nella testa con insistenza, risuonando come un’improrogabile condizione:“Concludi al più presto la tua ricerca e parti. Viaggia attraverso le onde, attraverso la nebbia, attraverso la pioggia e incontrerai quello che cerchi”».
Il delfino e Arione-Torres Ecco comparire, dunque, il simbolo del delfino, che non a caso dà il titolo al romanzo. Tale mammifero, in effetti, è un simbolo inconscio molto potente. Leggiamo nel Dizionario dei simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant che è «legato alle acque e alle trasfigurazioni» (Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, vol. I, Rizzoli, Milano, 1987, p. 371). Ben più importante, se pensiamo al libro di Iafisco, il fatto che sia considerato animale psicopompo, vale a dire che accompagna le anime nell’oltretomba. Un mito. Arione di Metimna sfugge ai marinai che vogliono ucciderlo grazie all’intervento di delfini che lo trasportano e lo salvano (Per le variazioni del mito, cfr. Erodoto, Storie, I, 23-24, e Igino, Favole): «Arione passa da questo mondo agitato e violento all’immortalità grazie alla mediazione dei delfini. […] Sotto l’aspetto più psicologico ed etico, il racconto indica il passaggio dall’eccitazione e dai terrori immaginari alla serenità della luce spirituale e della contemplazione, attraverso la mediazione della bontà (il tuffo salvatore, la sicurezza, l’atteggiamento benevolo dei delfini, ecc.). Si vedono qui le tre tappe dell’evoluzione spirituale: predominio dell’emotività e dell’immaginazione; intervento della bontà o dell’amore e della devozione; illuminazione nella gloria della pace interiore» (Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, op. cit., p. 372).Ebbene, tale percorso – come vedrà il lettore – è quello che compirà proprio il comandante Torres, che, pertanto, sul piano simbolico, si propone come un novello Arione. Grazie all’aiuto dei delfini scioglierà la propria pena esistenziale e la propria precarietà di essere terrestre. Lo stesso accadrà a Carlos.
La tempesta e il sovrannaturale Tuttavia, ogni passaggio esistenziale comporta dolore e sacrificio. Il mare e la natura non sono sempre idilliaci. Ciò che appariva accattivante e sereno assume repentinamente e inaspettatamente un aspetto convulso e tumultuoso, furioso e assediante. Iafisco è molto bravo nel descrivere il mare in tempesta: «Il veliero era avvolto da una fitta nebbia che impediva la vista. Il mare ribolliva come lava di un vulcano in eruzione; le sue onde, ora corte e frastagliate, apparivano come lame di grandi rasoi che incidevano le murate della barca. Iniziò un’inconsueta pioggia, fitta, incessante e con i colori dell’arcobaleno. La nebbia iniziò a diradarsi, ma il mare rinforzato dal vento s’ingrossò tempestoso. Dall’orizzonte avanzava veloce un altro fronte nuvoloso, molto più imponente dell’altro; nell’avvicinarsi assumeva la forma di inquietanti figure. L’enorme massa nuvolosa avvolgeva il veliero, il cielo si oscurava come se fosse notte. Un fulmine scaricò tutta la propria energia sullo specchio di poppa, tranciando le cime del gommone, che caddero in acqua. […] Intorno a sé la pioggia si andava trasformando in grandine e imbiancava il ponte». Nel romanzo di Iafisco la violenza degli elementi finisce per assumere contorni tra il fantastico, l’esoterico (il costante riferimento alla misteriosa Navigatio sancti Brendani) e l’horror: appaiono ombre terrificanti e tentacolari, ancestrali leggi metafisiche, fluttuare di enigmi, arcani fantasmi e allucinazioni. E lo scrittore mostra altrettanta perizia nel trattare il sovrannaturale: «Guglielmo è immobile sulla prua: aspetta la massa nebulosa che avanza verso il veliero assumendo, in maniera nitida, forme e ombre di cavalieri al galoppo. Sogno e realtà, allucinazione e premonizioni, si alternano e si mescolano fino a trasformarsi in un’unica visione. […]Tra le onde che imperversavano sulla barca, s’intravedeva il delfino apparso più volte nel corso della traversata. La meravigliosa creatura si muoveva con disinvoltura nel mezzo della mareggiata, avvicinandosi sempre di più al veliero, ormai del tutto in balia delle onde. Nell’aria salmastra risuonava un canto che ripeteva una melodia già ascoltata in sogno».
I valori virili e il percorso di formazione (Carlito’s Way) Oltre alle tematiche principali de Il canto del delfino (il mare, la ricerca esistenziale, il misticismo), che abbiamo fin qui analizzato, altri motivi costellano le pagine del romanzo. Alcuni costituiscono una rivalutazione di antichi valori virili, oggi non più di moda: il rapporto padre-figlio (prima Pablo-Guglielmo, poi Guglielmo-Jacopo); l’amicizia (Guglielmo-Roberto Salveri); il rapporto uomo-animale (il cane Nero); il rispetto della parola data; l’ambiente marinaresco in generale; la crescita di un ragazzo sotto le ali di un altro uomo, nel segno dell’ammirazione e della devozione (Carlito-Guglielmo, che ulteriormente si duplica nel rapporto Elian-Carlos). Con quest’ultima tematica il libro di Iafisco si viene a configurare anche come un romanzo di formazione: quello del cubano Carlito. Sbandato, smarrito, sfruttato, egli è alla ricerca di un padre da imitare e da ammirare. Lo trova in Guglielmo. Il rapporto con quest’ultimo non solo si rivela importante, ma decisivo per la sua crescita e la sua esistenza, anzi segnerà irrimediabilmente tutta la sua vita. Una curiosità. Carlito, come tanti cubani, finisce per espatriare e trovare successo a Miami: in questo non si trova un richiamo, forse inconscio, a un altro Carlito, un altro latino-americano alla ricerca di fortuna negli Stati Uniti d’America, quello splendidamente interpretato da Al Pacino nel Carlito’s Way (1993) di Brian De Palma? Sebbene il cubano emigrato a Miami più famoso del cinema Usa – sempre interpretato da Pacino e diretto da De Palma – sia il Tony Montana di Scarface (1983)… Entrambi ben diversi dal nostro Carlito. In un universo prevalentemente maschile, le donne compaiono in varie tipologie e incarnazioni: la ormai smarrita Jenny, l’invadente arrampicatrice senza scrupoli Helen, la devota Dolores e, soprattutto, la splendida, vitale e vivificante, positiva, Miriam.Infine, la presenza nel libro di Iafisco di tempeste, naufraghi, migranti clandestini, sfruttamento, sembra richiamare la dolorosa, attualissima, problematica delle “carrette del mare”, del dramma di una globalizzazione compiuta sotto il segno dello squilibrio e dell’ingiustizia.
Le tecniche narrative Iafisco si dimostra un abile narratore, in grado di padroneggiare varie tecniche narratologiche. La costruzione del suo romanzo ruota attorno alla dialettica presente/passato (anche se il presente è già futuro: la Miami del 2061), alla compresenza di situazioni (la fase finale dell’esistenza di un agiato anziano) ed eventi (il rogo del veliero Sonia Maria) attuali e di ricordi di un viaggio sul mare che permettono di far luce sul presente, di svelare il mistero. Si ha pertanto una narrazione di I grado (il narratore che racconta di Carlos nella Miami del 2061) e una di II grado (Carlos che rievoca l’avventuroso viaggio di Guglielmo Torres del 1999, da Genova verso le Bermude), quest’ultima certamente prevalente, anche se assume la funzione di far luce su quella di I grado. Tra le due narrazioni vi è un misurato e ben calibrato andirivieni, con conclusione, ovviamente, col ritorno al I grado. Nella narrazione di I grado assume la funzione di tempo centrale l’indicativo presente. Nella narrazione di II grado si adoperano i normali tempi “romanzeschi” (passato remoto, trapassato prossimo, imperfetto, ecc.). Inoltre, allorquando si hanno sequenze visionarie o mistiche, torna l’indicativo presente e si ha l’uso del carattere corsivo. In questa maniera il meccanismo narrativo diviene un perfetto congegno nel quale il lettore si ritrova alla perfezione. Ancora: tutto il romanzo ha un punto di vista e un ritmo “filmico”. È come se già fosse la sceneggiatura di una fiction. Prevale, infatti, l’aspetto visivo, e le azioni dei personaggi, i movimenti, le sequenze, i dialoghi, sono descritti e narrati dettagliatamente, appunto come nella sceneggiatura di un film.La conclusione del romanzo è una delle parti più affascinanti del libro: struggente e poetica. Non la anticipiamo, lasciando al lettore il piacere di leggere il libro di Iafisco, godendoselo tutto fino al bellissimo explicit.
(Rino Tripodi, Il viaggio mistico del comandante Torres, Prefazione a Il canto del delfino di Miro Iafisco, Sovera edizioni, pp. 7-15)
Le immagini: le copertine de Il canto del delfino e di Ho bisogno di ascoltare il mare (Mnamon) e il suo autore, Miro Iafisco, nel corso della presentazione tenuta a Roma il 9 maggio 2013, presso il teatro Brancaccino di via Merulana, e in altre immagini di repertorio.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno VIII, n. 91, luglio 2013)