Bilancio a mente fredda della conferenza danese sui mutamenti del clima, tenutasi a dicembre 2009
«Tanti auguri di buon Natale, amici miei!». Dopo mesi di distanze chilometriche dettate dagli impegni di studio o di lavoro, finalmente ci si rivedeva con gli amici di una vita: tanti aneddoti da raccontarsi (sorvolando volontariamente sul “futuro”, tema proibito), magari sorseggiando del buon vino rosso, con i Radiohead nello stereo, avvolti dal tepore di un “natalizio” camino.
Era una giornata perfetta quella del 25 dicembre 2009, se non fosse che, con ventisei/ventisette gradi all’ombra, un vento di scirocco che manco fossimo nel Sahara, più che Natale sembrava Ferragosto. Magliette di cotone al posto di dolcevita in lana, vino rigorosamente bianco e fresco invece del rosso, un tavolino estivo sul terrazzo per l’aperitivo al posto del camino.
Sia ben chiaro: tutti amiamo le dolci temperature e nessuno vuole tornare alla luce delle candele e alla vita nelle grotte, ma partire da una Bologna siberiana e arrivare in Abruzzo, con la percezione di essere a Copacabana, crea qualche scompenso (ancor più se si è metereopatici) e impone alcune serie riflessioni. Facciamo, quindi, un breve bilancio, a mente fredda, del tanto atteso ma fallimentare vertice di Copenaghen sui cambiamenti climatici.
Alla vigilia della conferenza, l’atmosfera era delle più fiduciose; le attese si mescolavano alle “percentuali” in una spirale “numerica”, che è rimbalzata tra stampa, telegiornali e comunicati governativi. Sembrava di essere a Wall Street: c’era chi puntava in alto, come l’Europa, che finalmente riusciva a parlare “con una voce sola”; chi puntava al ribasso, come lasciava dedurre l’incerto silenzio di Washington; e chi cercava di barcamenarsi tra un duplice ruolo, di paese più inquinatore del mondo e paese in via di sviluppo, come la Cina. È così che, in Danimarca, il mondo si è trovato a dialogare su quello che è in fondo il proprio destino, cioè il destino delle future generazioni. Il padrone di casa del Vertice, il premier danese Lars Lokke Rasmussen, rappresentava l’Unione Europea. Dopo aver approvato il piano del “20-20-20” (cioè, del 20% di taglio alle emissioni e del 20% di energia derivata da fonti rinnovabili in più entro il 2020), Bruxelles alzava l’asticella, con l’obiettivo di giungere a una riduzione delle emissioni del 50% entro il 2050 (sui livelli del 1990), con un loro picco previsto per il 2020. Del taglio complessivo avrebbero dovuto farsi carico per l’80% gli stati di prima e seconda industrializzazione e per un 20% i paesi in via di sviluppo. Tutto ciò con in dote 7,2 miliardi di euro per il triennio 2010-2012, per permettere ai paesi economicamente più arretrati di adattarsi ai cambiamenti climatici.
Ha giocato al ribasso Barack Obama, oberato dal lavoro, dati i molteplici ambiti in cui gli Stati Uniti sono oggi più che mai impegnati (Afghanistan e Iran all’estero, riforma sanitaria all’interno, solo per citarne alcuni). Gli Usa promettevano di abbattere le emissioni del 17% entro il 2020 rispetto ai valori del 2005 (poco meno del 4% rispetto ai livelli 1990). Tutto ciò mentre arranca al Senato il climate bill che dovrebbe realizzare le promesse ambientaliste della green economy, su cui tanto ha puntato il presidente statunitense in campagna elettorale. La Cina “equilibrista” e “inquinatrice” di Hu Jintao era giunta, dopo mesi di tentennamenti, a formalizzare lo sforzo che Pechino intendeva fare per ridurre le emissioni, ovvero divenire “più efficienti” del 40-45% entro il 2020, cioè di ridurre quasi della metà la quantità di emissioni di CO2 per unità di prodotto interno lordo. L’obiettivo è senza dubbio ambizioso, di un’ambizione tuttavia limitata a un caveat imprescindibile: il target del 40-45% è un “impegno volontario”, una scelta sovrana presa da Pechino, non vincolata a nessun trattato internazionale, e stabilito sulla base delle proprie condizioni nazionali. Infine, gli “arrabbiati”, i paesi in via di sviluppo che riaffermavano la propria fedeltà al protocollo di Kyoto, inteso come “strumento legale” con cui si chiede ai paesi industrializzati la riduzione del 40% delle emissioni dei gas serra da qui al 2020 rispetto al 1990. Destinato a esaurire i suoi effetti entro il 2012, India e Brasile in primis reclamavano la sua estensione e il suo rafforzamento.
Qual è stato l’effetto di questa guerra di numeri e percentuali? Dal punto di vista delle dinamiche internazionali, Copenaghen ha dimostrato che il mondo è definitivamente cambiato: l’unipolarismo statunitense è ormai un ricordo. Oggi il destino del mondo è legato indissolubilmente a quello che in molti, nonostante le smentite dei diretti interessati, definiscono “G2”: il direttorio mondiale a guida cino-americana. Ma non solo. India e Brasile, in testa ai paesi in via di sviluppo, hanno fatto sentire la loro voce. Inizia a farsi spazio, quindi, una nuova idea: è vero che il resto del mondo non può nulla senza gli Usa, ma essi non possono oggi nulla senza il resto del mondo. Sul piano più prettamente politico, ciò che è emerso da Copenaghen è stato il prevalere dell’interesse nazionale su quello globale, nonché la chiara mancanza di una solida volontà politica di giungere a un compromesso su quello che è uno dei temi più “scottanti” degli ultimi decenni.
Sul piano pratico la questione si fa poi ancor più interessante. Tutto si è concluso con un accordo internazionale non vincolante, che non fa altro che riportare nero su bianco l’aspirazione globale al limite di due gradi centigradi da porre all’innalzamento della temperatura. Nessun meccanismo di controllo e verificabilità sulle performance degli stati. Che significato ha? Fuori dalla regola base del contrattualismo, “pacta sunt servanda“, gli accordi non vincolanti non possono appartenere al diritto consuetudinario dei trattati. Essi non solo indicherebbero l’inesistenza di posizioni comuni su questioni di fondo, ma molto spesso sono adottati solo per impedire che i rapporti politici si degradino. Una banality fair, quindi, la conferenza danese? La domanda è più che legittima. Tutto ciò che si può sperare è che l’accordo non vincolante influenzi la prassi e che questa influenzi il diritto vigente, in modo da tracciare in maniera non completamente giuridica un passo in avanti sulla strada del cambiamento. Sembra che la volontà di inquinare, che in fondo non è altro che volontà di produrre e macinare profitti, valga il prezzo di catastrofi naturali, di cui tutti purtroppo siamo stati e continuiamo a essere inermi spettatori. Viene meno la possibilità di una reale evoluzione in materia, perché, se si vuole, il motto obamiano “Yes, we can!” è svanito! Nessun wind of change, dunque. I venti continueranno a soffiare su cieli sempre più “soffocati”.
Paolo Vallonchini
(LucidaMente, anno V, n. 51, marzo 2010)