“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” e “Siamo quel che mangiamo” sono due modi di dire che affermano la possibilità di definire l’identità di un individuo in base alle sue preferenze o abitudini. Io aggiungerei anche un “Dimmi cosa usi e ti dirò come sei”, o meglio: “Dimmi come usi ciò che usi e ti dirò cosa sei”. Non è il possedere un artefatto o un gioiello tecnologico che cambia la nostra quotidianità; ciò che può plasmare il nostro rapporto con il mondo è il modo in cui lo usiamo. Il modo in cui lo percepiamo, come la nostra personalità ci si rapporta, la maniera in cui quest’oggetto si pone tra noi e gli altri. Le conseguenze dell’arrivo di un nuovo oggetto in una comunità di individui sono spesso imprevedibili.
Questa è la storia di come io ho appreso l’uso del cellulare – o meglio dovrei dire -, dei cellulari, e di come essi hanno trasformato le mie abitudini e quelle delle persone che mi circondano. Quasi impossibile da immaginare un iPod che viaggia insieme con i carciofini, l’olio e le melanzane, dentro uno di quei pacchi che ti invia tua madre quando sei all’università. O, meglio, quando sei del Sud o del Centro Italia e studi a qualche centinaio di chilometri più a nord. Scatole piene di amore, il cui reale contenuto non conta. Non importa se dentro ci sono formaggi, salumi, fichi, o le stesse identiche cose che puoi acquistare al supermercato sotto casa, l’importante è che quel pacco per un po’ accorci le distanze, anche solo durante l’attimo in cui il corriere te lo consegna.
Il mio primo cellulare, un Ericsson A-1018 Dual Band, mi arrivò proprio così: a Perugia, in via Faina, nascosto tra il pecorino e i pomodori, tra la nostalgia e l’apprensione, spedito da Atri. Un dispositivo mobile, pesante e primitivo che io non volevo, ma che gli usi e i costumi della mia epoca m’imponevano. Farmelo trovare confezionato tra il cibo fu un colpo basso e ben studiato. Avevo sentenziato già da qualche tempo che io il cellulare non me lo sarei mai comprato, ma era il 2000 ed ero anacronistica e utopica. Ci sono cose che non dipendono dalla nostra volontà e altre che addirittura vi si oppongono. Tra queste e nello specifico in una congiuntura spietata ci sono lo sviluppo della tecnologia e le decisioni delle madri. Nel terzo millennio non bastava più chiamare a casa una, due volte a settimana da una cabina telefonica.
Mi ricordo quando nel ’98 vivevo in corso Garibaldi, a Perugia. Sotto casa mia c’era il bar di Alberto e lì un telefono a schede che prendeva anche le monete. Dalla finestra della mia stanza controllavo il telefono e se era libero scendevo e chiamavo casa. Non avevo un giorno o un’ora prestabilita per sentire i miei e, spesso, mi dimenticavo di farlo. Qualche volta non chiamavo per intere settimane. La telefonata che seguiva a questa dimenticanza aveva un immancabile incipit, quello in cui mia madre s’incazzava a morte. Spesso la filippica era tutto: dall’incipit al prologo della telefonata, ma andava bene così, ci eravamo sentite, ci eravamo assicurate di essere ancora vive e di volerci bene. Una spinta tecnologica proveniente da Alatri sovvertì questo disordine.
Al mio coinquilino Ivano regalarono un cellulare brutto e nero. Un giorno, appesa alla cornetta del solito telefono pubblico nel bar, dopo l’ennesimo incipit, in mancanza di parole e giustificazioni, confessai: «Mamma, il mio coinquilino ha un cellulare!» e proposi: «Ti lascio il suo numero, così quando ti viene la straziante sensazione che mi sia accaduto qualcosa di brutto lo chiami e gli chiedi come sto. Dài, scherzo! Lo chiami e, se sono con lui, poi mi passa la chiamata…». Una rivoluzione: mia madre poteva finalmente telefonarmi. Ma non solo mia madre, anche i compagni di università, gli amici, gli sconosciuti. Il cellulare di Ivano era diventato un hub: un punto di smistamento di chiamate provenienti da telefoni pubblici e altri sparuti cellulari. Quando squillava non era così scontato che la telefonata fosse per lui. Poteva essere per me, per Vera o per altri amici. Il mio coinquilino non era l’unico ad essersi ritrovato a fare il centralinista di una piccola reception, ce n’erano altri dotati di dispositivo telefonico mobile che facevano da smistatori di chiamate nei rispettivi gruppetti di referenti.
Anche il tam tam della notte si trasformò: gli appuntamenti divennero più precisi, la localizzazione delle feste meno acrobatica, la diffusione delle indicazioni più neurale. Era diventato più difficile perdersi e improvvisare le serate. Era diventato più facile trovarsi e sapere dove andare e cosa fare. Non era meglio, non era peggio. In breve tempo, mentre io continuavo a frequentare le cabine telefoniche, il numero dei miei amici “cellu-dotati” aumentò vertiginosamente. Il traffico degli hub diminuì e le persone iniziarono a godersi la loro rintracciabilità. L’evento che portò mia madre a stringere un patto con la tecnologia mobile e a consegnarmi al mercato degli operatori telefonici, fu l’espansione di una cisti nella mia tiroide. Una mattina mi accorsi di questa protuberanza sulla mia gola e quando mi recai all’ospedale di Monteluce a Perugia mi fecero un ago aspirato e mi ricoverarono per dei controlli. Tre giorni in ospedale e diagnosi risolutiva: la cisti conteneva solo materiale colloidale amorfo. Niente di preoccupante, nonostante la terminologia. Uscita dall’ospedale chiamai casa e raccontai l’accaduto.
Quando i miei genitori seppero del ricovero ebbero la certezza assoluta che io avessi bisogno di un cellulare. La correlazione tra i fatti non è lampante, lo so. Il cellulare non mi avrebbe protetto dalle cisti tiroidee, né dagli incidenti stradali, né dai ladri, anzi al contrario avrebbe addirittura potuto attirare su di me alcune di queste sciagure, ma d’altra parte e – cosa a quel momento più importante – ci avrebbe avvicinati, abbattendo definitivamente tutti gli ostacoli che la distanza metteva da anni tra le nostre orecchie e le nostre bocche. Avevo una tiroide “ipercistica”, piena di microscopiche sacchettine pronte a riempirsi di liquido amorfo, ma avrei avuto anche il mio Ericsson Dual Band e una scheda telefonica Tim , pronti a chiamare a casa per avvertire mia madre. Le cose sembravano bilanciarsi. E il fatto che io non avessi chiamato durante il ricovero, non perché non avessi un telefono – l’ospedale era pieno dei miei adorati telefoni pubblici -, passò come un particolare irrilevante.
Avevo il mio Ericsson blu e nero, l’aveva scelto mio padre. Dovevo metterlo in carica una mezza giornata prima di poterlo usare, dovevo scegliere la suoneria, iniziare a popolare la rubrica, dimenticare tutti i numeri telefonici che conoscevo a memoria, e poi? E poi gli sms: imparare a scriverli e soprattutto imparare il piacere di riceverli, affezionandomi morbosamente all’iconcina rettangolare a forma di busta da lettere. Potevo farcela, come attorno a me ce la stavano facendo tutti. Ciò che mi sfuggì d’imparare, durante almeno tutto il mio primo anno da “cellu-dotata”, fu la prassi di portare il telefono con me, sempre. Io uscivo e lo lasciavo a casa, andavo all’università e lo lasciavo a casa e quando ero a casa spesso dimenticavo di accenderlo. Lo abbandonavo per giorni sul mobile della camera da letto: se mi ricordavo lo spegnevo, se mi ricordavo lo accendevo.
La socializzazione col mio nuovo mezzo di comunicazione avvenne a forza di rimproveri da parte dei membri dei gruppi a cui appartenevo, in particolare la famiglia, gli amici, i colleghi dell’università. A suon di richiami la mia rete sociale mi convinse dell’importanza di essere un membro attivo nell’ambito della telefonia mobile: chiamare, rispondere, scrivere sms, fare gli squilli, avere il cellulare acceso e raggiungibile. Vi assicuro che c’è stato un momento preciso in cui l’addomesticamento al mezzo è iniziato e io me lo ricordo chiaramente. E mi ricordo anche quale fu la mia prima esigenza ad esso collegato, il mio primo vero desiderio indotto. Il sentire di avere bisogno di un cellulare più piccolo e leggero. Se me lo dovevo portare in giro doveva per lo meno starmi in tasca. Dovetti aspettare qualche anno per avere il mio Ericsson T19 che pesava solo 70 grammi.
Da lì in poi è stato tutto un avvicendarsi di funzioni e funzionalità, servizi, applicazioni, integrazioni, auricolari, cavetti usb, schede di memoria, insomma di quelle cose che per noi oggi sono pane quotidiano. Al momento ho ancora solo un cellulare, ma sto pensando di comprare uno smartphone. Ogni tanto lo dimentico a casa ed è facile che perda qualche chiamata perché tengo la suoneria rigorosamente disattivata. In compenso ho Skype attivo sul pc per la maggior parte della giornata, controllo la posta elettronica in tempo reale e mi avvalgo di tutta una serie di network, come Twitter e LinkedIn, che mi tengono ben salda alla mia rete sociale e ai miei contatti lavorativi.
L’immagine: particolare di Ricerca cromatica 06, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it), per gentile concessione dell’artista.
Yvonne Bindi
(LM EXTRA n. 22, 15 dicembre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 60, dicembre 2010)