L’accoglientismo indiscriminato di Francesco I non è accettato da buona parte degli alti prelati del Continente nero: andarsene dai propri paesi d’origine sottrae risorse umane e apre a un destino di schiavitù
Ne Il Vaticano ha dato ormai per persa l’Europa?, pubblicato lo scorso marzo sul n. 159 di LucidaMente, abbiamo cercato di spiegare e approfondire le motivazioni strategiche per cui Francesco I ha abbracciato l’ideologia dell’accoglienza dei migranti in modo apparentemente tanto cieco e assurdo. In sintesi, abbiamo affermato che, nel nostro continente ormai desacralizzato e secolarizzato, la Chiesa cattolica guarda con speranza all’arrivo di africani o asiatici cristiani o da evangelizzare, sacrificando l’identità culturale ed etnica europea e accettando l’invasione islamica. Meglio stranieri e poveri (e musulmani) che miscredenti.
Tuttavia, per evidenziare la pretestuosità dell’ideologia bergogliana dell’accoglienza, è sufficiente citare sulla questione il “pensiero divergente” di alcuni alti prelati. In realtà, difatti, la posizione del pontefice argentino non è condivisa da molto clero italiano. E non si tratta solo di parroci di periferia. Ad esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, ha affermato che «tra i doveri di uno Stato c’è anche quello di governare i flussi migratori con umanità, verità e senso delle proporzioni. […] Rimane il rischio che alcune realtà “solidali” possano utilizzare il fenomeno migratorio per altri scopi: impoverire l’Africa per lasciarla alla mercé di certi potentati; favorire uno stravolgimento dell’identità europea attraverso l’approdo di masse umane disomogenee». E, quindi, sorgono spontanee le «perplessità sul multiculturalismo, su una società ridotta a semplice sommatoria di culture ed etnie, senza un’identità forte» (intervista rilasciata al Qn: Il vescovo dei migranti si ricrede. “Sugli sbarchi ha ragione Salvini”). E gli stessi africani? Come evidenziato da Nicola Lamri in Gli intellettuali del Continente nero e il problema delle migrazioni: una soluzione è possibile? (LucidaMente, n. 162, giugno 2019), filosofi, pensatori, studiosi, sociologi, scrittori africani pongono molte questioni non risolvibili con le formulette buoniste di Bergoglio o i facili slogan quali “non muri, ma ponti”.
Ma non la pensano diversamente gli alti prelati della Chiesa cattolica africana. Infatti, i vescovi dell’Africa occidentale, nel messaggio emesso al termine della loro assemblea plenaria (16 conferenze episcopali, riunite in Burkina Faso nello scorso maggio), hanno scritto, rivolgendosi ai loro giovani: «Noi comprendiamo la vostra sete di felicità e la ricerca di un benessere che il vostro paese non è in grado di offrirvi; la disoccupazione, la miseria, la povertà sono dei mali che umiliano e indignano ma che non devono indurvi a sacrificare le vostre vite attraverso cammini pericolosi verso destinazioni incerte. Non lasciatevi ingannare dalle false promesse che condurranno alla schiavitù e a un avvenire illusorio!» (da L’Osservatore Romano).
Le stesse preoccupazioni di una migrazione che si rivela rimedio peggiore del male dal quale si intende sfuggire sono state espresse alla rivista Il Timone dal cardinale nigeriano John Olorunfemi Onayiekan: «La tratta degli esseri umani è un rischio reale. Molti muoiono nel Mediterraneo e se arrivano a destinazione spesso vengono sfruttati». Quale soluzione? «I giovani devono essere pazienti e lavorare sodo nei loro Paesi d’origine. Anche se ciò può essere difficile, sicuramente non è tanto drammatico quanto finire nel mercato degli schiavi o nelle prigioni della Libia». Il cardinale guineano Robert Sarah è prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Egli, in un’intervista concessa nello scorso marzo al settimanale francese Valeurs actuelles, ha allargato il discorso all’estinzione della civiltà europea e alla sua sostituzione etnica: «Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità. È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l’Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio: che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio Paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo». Il cardinale esprime il proprio sdegno nei confronti dei criminali «che attraversano l’Africa per spingere i giovani a fuggire, promettendo loro una vita migliore in Europa. Perché la morte, la schiavitù e lo sfruttamento sono così spesso il vero risultato dei viaggi dei miei fratelli africani verso un eldorado sognato? Sono disgustato da queste storie. Le filiere mafiose dei trafficanti devono essere sradicate con la massima fermezza. Ma curiosamente restano del tutto impunite».
Secondo Sarah, «alla fine di questa strada c’è solo l’autodistruzione. Si è approfittato della giusta lotta contro tutte le forme di discriminazione per imporre l’utopia della scomparsa delle patrie. Ma questo non è un progresso. La carità non è un rinnegamento di sé. Essa consiste nell’offrire all’altro ciò che di meglio si ha e quello che si è. Ora, ciò che di meglio l’Europa ha da offrire al mondo è la sua identità, la sua civiltà profondamente irrigata di cristianesimo. […] La globalizzazione porta a un’omologazione dell’umanità. Mira a tagliare all’uomo le sue radici, la sua religione, la sua cultura, la storia, i costumi e gli antenati. Così diventa apolide, senza patria, senza terra. È a casa dappertutto e da nessuna parte».
Come avete potuto leggere, tutti sono concordi nel dire no all’emigrazione e nell’invitare i giovani africani a fare da soli. Questo ritornello ha un motivo profondo; il sistema di aiuti economici delle Nazioni unite o occidentali contengono tre “peccati originali”: 1) spesso finiscono nelle mani di politici locali corrotti, dei clan tribali più potenti o proprio delle mafie del territorio; 2) le condizioni finanziarie dei prestiti sono un’ulteriore trappola; 3) la concessione dei prestiti o dei progetti recano con sé obblighi politici o culturali che stravolgono i paesi che li ricevono. Tornando in Italia, vale a dire la nazione che negli ultimi anni ha maggiormente subito la disordinata ondata migratoria proveniente dall’Africa, un quadro esauriente della questione è quello che è stato fornito il 15 gennaio 2019 al quotidiano La Verità (intervista di Lorenzo Bertocchi) da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste. Bisogna anche dire che il titolo attribuito alla stessa, per di più virgolettato come se fosse una citazione («Non esiste alcun diritto ad emigrare»), è una forzatura del pensiero del prelato, come fatto giustamente notare dall’Osservatorio internazionale cardinale Văn Thuận sulla dottrina sociale della Chiesa, di cui è presidente proprio Crepaldi.
Ma, al di là dello svarione del titolista del quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, leggiamo alcuni passi dell’intervista a Crepaldi: «Le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza e nello stesso tempo interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune Ong, non scaricare tutta la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea e mediterranea e così via. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nella tutela del bene di tutti».
Continua l’arcivescovo di Trieste: «Bisogna distinguere tra le situazioni di fatto e quelle di diritto. Può darsi che il fenomeno delle migrazioni e delle immigrazioni di fatto continui, ma nessuno può dire che sia in sé un bene. I vescovi dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la Dottrina sociale della Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro la marea migratoria ci celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni non sono quindi un bene in sé, la cosa dipende se servono il bene dell’uomo o no, e se non sono un bene in sé non sono nemmeno ineluttabili, anche se il giudizio di fatto oggi sembra dirci così». Quindi il discorso di Crepaldi si allarga a un altro slogan “buonista: “Tutte le religioni sono uguali, tutte le religioni sono di pace”. Non è così: «Lo stesso dicasi per la società multireligiosa: non è un bene in sé, essa è a servizio del bene comune, che rimane il fine ultimo della comunità politica. Ci sono religioni che propongono e impongono prassi contrarie al bene dell’uomo, come la superiorità del maschio sulla femmina o le mutilazioni genitali. Dire che è un bene in sé significa rinunciare a valutare le religioni con un criterio di verità. Non bisogna far finta che nella teologia islamica non ci siano elementi che rendono difficile l’integrazione. Ne elenco alcuni: l’idea di Dio come Volontà, le sue leggi come decreti a cui obbedire alla lettera, l’impossibilità di un diritto naturale, la coincidenza tra legge islamica e legge civile, la distinzione antropologica tra categorie di persone, la priorità della Umma sull’umanità allargata, l’espansione come conquista… Illudersi che queste ed altre caratteristiche possano mutare è ingenuo». Nel frattempo si registra la maggiore disponibilità a far sbarcare gli immigrati in Italia palesata dal nuovo governo giallorosso, appoggiato dall’Unione europea. Certo, la rigidità salviniana era assurda e rischiava la disumanità, tuttavia, si riaprono le polemiche…
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)