Chiarendo i concetti di letalità apparente e letalità plausibile, un articolo di Marco Villa, apparso la scorsa settimana sul “Corriere della Sera”, intende chiarire molti dubbi che ci attanagliano. Ma resta qualche interrogativo
Il quotidiano bollettino delle ore 18 su contagiati, guariti, morti, così freddo e privo di valori statistici, può gettare il cittadino nella disperazione o aprire le porte alla speranza. Non bastano i numeri sciorinati; occorre interpretarli, e sono necessari modelli statistici. Apparentemente, tra tutti i Paesi coinvolti nell’epidemia, è l’Italia quella col maggior numero di vittime sia in termini assoluti, sia – il che è ancora più grave – in termini relativi.
Nel momento nel quale stiamo scrivendo il presente articolo, nella penisola i casi accertati di positivi al Covid-19 sono intorno a 120.000 e i morti si avvicinano ai 15.000. La percentuale di letalità è dunque altissima: 12,5%. In Cina – ma molti dubitano della veridicità dei dati di uno stato dittatoriale – è del 4%, in Germania dell’1% circa e in Norvegia addirittura dello 0,5%. Al di là delle possibili cause (del taglio del sistema sanitario parleremo a fine articolo), quali una mutazione locale del virus, gli aspetti demografici, le differenze climatiche, l’inquinamento lombardo, le abitudini familiari di maggiore contiguità, ecc., fino al diverso calcolo dei decessi “per” (Germania) o “anche con” coronavirus (Italia), restano delle cifre davvero preoccupanti. Facciamoci allora aiutare da un complesso articolo di Matteo Villa, ricercatore del programma migrazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale). Il contributo s’intitola Coronavirus in Italia, qual è la vera letalità? ed è uscito il 27 marzo scorso su Corriere.it/salute.
Innanzi tutto, Villa invita a distinguere tra mortalità e letalità. La prima è la percentuale di morti su tutta la popolazione; la seconda è quella sui contagiati. Ancora più importante è la distinzione tra tasso di letalità apparente (Case fatality rate, Cfr) e tasso di letalità plausibile (Infection fatality rate, Ifr). Se tutta la popolazione fosse stata sottoposta a tamponi – condizione irrealizzabile – noi avremmo un tasso di letalità (contagiati/morti) esatto al 100%. Invece abbiamo un tasso di letalità apparente, che tiene conto solo dei contagiati “scoperti”, i quali sono una parte dei contagiati “reali”.
Ecco, allora, che ci viene in aiuto il tasso della letalità plausibile, che «tenta di stimare anche le dimensioni della “base”, ovvero il numero di contagiati totale, per poi dividere il numero delle morti confermate per l’intera grandezza della piramide. Com’è ovvio, il calcolo della letalità apparente è immediato, perché sia il numero delle morti confermate che quello dei casi confermati è conosciuto. Il calcolo dell’Ifr richiede invece diverse operazioni di stima dei contagi totali ed è molto complicato. Tuttavia, calcolare l’Ifr è indispensabile per avere un’idea realistica di quante persone contagiate perdano realmente la vita». Per sintetizzare il complesso discorso statistico-matematico di Villa, che il lettore può leggere per intero al link sopra indicato, possiamo affermare che gli italiani positivi al coronavirus sono dieci o venti volte quelli “scovati” col tampone. Pertanto, il tasso di letalità plausibile scenderebbe a livelli standard: 0,8-1,2%.
Insomma, secondo Villa, qualche dato incoraggiante c’è: «In Italia non sembra essere presente un ceppo molto più letale di coronavirus rispetto al resto del mondo. La letalità plausibile del virus varia con la struttura delle età e la sua diffusione nella popolazione: a parità di contagiati, è naturale attendersi un numero di morti più alto in Italia che in Cina perché la popolazione italiana è nettamente più anziana di quella cinese e il virus colpisce in maniera più grave proprio le classi d’età più avanzata». Ma esistono anche alcune “cattive notizie”: «Abbiamo ormai perso contatto con la diffusione del virus nella popolazione generale». Vale a dire che non riusciamo a seguire le “tracce” del contagio.
Ma c’è ancora qualcos’altro di cui allarmarsi. Scrive Villa: «La seconda cattiva notizia è che, se il virus è sicuramente meno letale di quanto potevamo immaginarci, la sua pericolosità rimane immutata. Da un lato, la letalità si abbassa solo perché aumenta il numero plausibile di contagiati, ma il trend dei decessi rimane purtroppo immutato. Dall’altro, anche immaginando che il virus abbia contagiato 1,2 milioni di persone, si tratterebbe ancora soltanto del 2% della popolazione italiana. Saremmo dunque ancora molto lontani da una diffusione del virus nella popolazione generale sufficientemente ampia da avvicinarsi alla famosa “immunità di gregge”, ottenendo l’effetto di rallentare nuovi contagi (ciò accade quando attorno a una persona contagiosa c’è un numero sufficiente di persone sane e immuni, che fanno da barriera). Un’ultima precisazione, che vale per tutti i paesi, è che soprattutto nelle regioni in cui più alto sarà lo stress sanitario è plausibile attendersi che una quota di decessi non venga censita tra le persone positive al coronavirus, perché non resteranno tempo e risorse per eseguire il tampone neppure post mortem».
L’accenno allo “stress sanitario” c’induce a qualche ulteriore considerazione. Se guardiamo alla situazione spagnola, in ritardo di un paio di settimane rispetto all’evoluzione italiana, notiamo che i numeri della pandemia stanno per diventare anche peggiori che da noi. Nel paese iberico si riscontrano circa 10.000 vittime su 100.000 contagiati (il 10%). Poiché non si discutono, anzi si apprezzano moltissimo la preparazione, l’abnegazione eroica di medici, infermieri e personale paramedico italiani e spagnoli, una possibile spiegazione della straordinaria discordanza con altre nazioni non potrebbe essere anche individuata nello smantellamento della sanità pubblica che dal 2008 in avanti (ma anche prima) ha colpito i due paesi latini, in piena crisi economico-finanziaria?
Centinaia di migliaia di posti letti ospedalieri tagliati (da 530.000 del 1981 a 191.000 del 2017), malati dimessi il prima possibile, ospedali chiusi e così anche i reparti di rianimazione e di terapia intensiva; blocco dei pensionamenti, del turn over e quindi delle assunzioni e sfruttamento degli operatori con turni disumani. Con queste cifre è evidente che le strutture per l’accoglienza e la cura dei malati di Covid-19 siano insufficienti. Inoltre, sono stati decisi autentici “regali” alla sanità privata, che, ovviamente, ha concentrato le proprie forze su patologie più “remunerative” rispetto alla medicina d’urgenza, di rianimazione o all’epidemiologia. Quando finirà tutto (o quasi, perché si temono reinfezioni del coronavirus anche in autunno), occorrerà che qualcuno analizzi il piano criminale di austerità ultradecennale dell’Unione europea, che ha distrutto la Grecia e tanto indebolito il welfare di molte altre nazioni. E che i responsabili (i presidenti del Consiglio da Mario Monti in poi, coi leader europei tutti d’accordo) vengano additati alla condanna morale e politica.
Per cogliere la causa primaria della diffusione del coronavirus, leggi: Perché il coronavirus (e perché in futuro ce ne saranno altri).
Le immagini: cartine elaborate il 2 aprile 2020 dall’European Centre for Disease Prevention and Control, agenzia dell’Unione europea.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 172, aprile 2020)