Partendo dal “brodino” di Guido Piovene riportato da Serafino D’Onofrio sul “Carlino” di qualche giorno fa…
Sulle pagine bolognesi de il Resto del Carlino leggo sempre con interesse la rubrica Il marziano dell’amico Serafino D’Onofrio. Umorismo, amarcord, satira, schegge di vita bolognese si susseguono settimana dopo settimana.
Ne Il marziano dello scorso mercoledì 21 dicembre, Serafino, da buon napoletano che talvolta, simile a Felice Caccamo, ha qualche momento di pigrizia, ha scritto: «Non ho voglia di scrivere e copio le parole di un grande giornalista: Guido Piovene. Che, nel 1953, iniziò un tour per conoscere la condizione sociale del Paese. Dopo tre anni di peregrinazioni, pubblicò Viaggio in Italia. A Bologna incontrò il Vescovo, il Prefetto e il sindaco Dozza. Non sentì profumo o puzza di consociativismo (il vocabolo è successivo) ma, fra i tre poteri, notò rispetto per i rispettivi rispettabili ruoli». Il sottoscritto, anche lui impigrito dalle festività natalizie, fa come Vincenzo Monti, secondo Ugo Foscolo, «Gran traduttor dei traduttor d’Omero». Pertanto riporto a mia volta il giudizio su Bologna di Piovene riportato a sua volta da D’Onofrio.
«Bologna […] è facile, gaudente, umoristica, abbandonata alla propria vitalità ed all’amore per la vita; piena di malati di fegato per eccesso di buona tavola… Molte bellezze di Bologna, ed anche molti dei suoi negozi migliori, sono, non dirò segreti, bensì avviluppati e nascosti nelle sue pieghe prosperose. Il segreto del ripieno di un piatto succulento. La bellezza di Bologna non si pensa ma si respira, si assorbe, si fa commestibile… Bologna, con l’Emilia, ha la più celebre cucina d’Italia. La sua caratteristica è che il numero degli ingredienti non sembra mai sufficiente, come in certe chiese barocche, dove rimane sempre un ornato da aggiungere… I vanitosi della propria linea, quando vanno a Bologna, hanno la soddisfazione di credersi dimagriti perché si confrontano con gli altri…
Il piatto bolognese è l’apoteosi della natura morta barocca. Un ristorante, in cui sono entrato a caso, ed ho chiesto un arrosto, mi mette davanti un piatto di fagiano, di anitra selvatica, di un altro uccello acquatico che non ricordo, di cinghiale, di lepre, più un tordo intero che corona la costruzione… Altri mi descrive un pranzo di nozze nella campagna. Salumi, tortellini; poi pasticci di lasagna a molti strati (con tartufi, formaggio, salsicce) su vassoi larghi come tavole; ciascuno se ne taglia una specie di mattonella. Poi zamponi e bolliti, uccelli con polenta e carni al forno. Le paste dolci bolognesi sono ampie, panciute, cremose, e fanno anch’esse pensare alla gravidanza…
La Cesarina, celebre ostessa bolognese, se questa classica parola, ostessa, non suona offensiva, mi dice: “In attesa della minestra, le darei un brodo”. Mi porta un’anteminestra di tortellini. Dico che volevo un brodo. “Il brodo bolognese è quello lì che lei ha davanti” mi risponde la Cesarina. “Non sono tortellini; ce n’è una trentina appena”. Esibita questa teoria dei tortellini come ingredienti del brodo, mi accenna alla loro origine: un oste dell’antichità vide Venere nuda per il buco della serratura, e le copiò l’ombelico. Chi passeggia una giornata per le vie di Bologna, tra gli odori carnosi e brodosi dei ristoranti, tra gli odori cremosi delle pasticcerie, nel riverbero rosso delle sue mura e torri». Resto basito: vivo a Bologna da oltre trent’anni, ma della generosità e delle delizie descritte da Piovene non ho mai visto traccia… Una trentina di tortellini nel brodo, tanto per gradire? Cacciagione di ogni tipo? Zamponi, bolliti, lasagne a più strati con tartufi? Hic sunt leones…
O viaggiatore incauto del 2011, quasi 2012 – secondo alcuni, anno finale dell’umanità –, che entri in un ristorante bolognese di oggi, sta’ guardingo. Trattandoti come un pollo di allevamento intensivo, ti faranno “accomodare” entro spazi angusti, seduto a un tavolino strettamente confinante con altri, sotto luci sgradevoli, in un chiasso che ti impedirà l’amabile conversazione coi tuoi amici commensali. Ma, almeno, abbi un moto di indignazione quando il cameriere, avvicinandosi accattivante e amichevole, pronuncia il fatidico «faccio io?». Risponderai laconicamente con un «no». Evitato questo primo trabocchetto, sàlvati dal secondo: «Porto degli antipasti?». Ti riempirebbero il piatto di normali salumi a caro prezzo che potresti benissimo acquistare al supermercato in igieniche e sterili buste, ti ingozzerai di pane, il cuoco della locanda non avrà lavorato e non sarai più in grado di valutare il resto. Saltàti dunque gli antipasti, goditi un primo (uno solo, altro che la Cesarina!): se sarai fortunato, mangerai buone tagliatelle, tortellini, lasagne (queste ultime non sempre presenti nel menu). Spera che il ragù sia stato fatto a regola d’arte, senza fretta. Hai forse evitato Scilla… ma ecco che ti si prospetta Cariddi! Il secondo piatto…
Il solito cameriere impudico e ingannatore ti propone «la grigliata mista». Orrenda cosa americana, carnaccia buttata sul fuoco, infausta pira, senza arte culinaria! Ma non c’è un bollito, un brasato, delle polpette, un arrosto? Ahi, spesso non c’è davvero! E arriverà il conto finale. Salato, ahinoi, salato. Scorrendolo con un minimo di attenzione, ti accorgerai che avrai speso più per l’acqua, il vino e magari per n digestivo che per tutto il resto! O tempora, o mores! Quella di Piovene degli anni Sessanta era un’Italia più povera (forse), meno imprenditoriale, ma più generosa. E come si mangiava bene!
Le immagini: sua maestà il tortellino e copertine di Viaggio in Italia (ultima riedizione a cura di Dalai Editore) di Guido Piovene.
Rino Tripodi
(LM MAGAZINE n. 21, 15 dicembre 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 72, dicembre 2011)
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