Le varie tappe di un disastro per alcuni e di un trionfo per la Germania e altri paesi dalla cultura luterana e calvinista. Un carrozzone dai costi elevatissimi. Il famigerato Mes divenuto Recovery Fund e lo scontro Corte di Karlsruhe-Quantitative easing
Nell’articolo di apertura di questo numero di LucidaMente, I dodici passi verso la catastrofe, abbiamo linkato il presente articolo per cercare di approfondire uno dei tasselli della crisi epocale che sta attraversando il nostro continente. Una cosa è certa. L’Unione europea è lontanissima da ciò che avevano immaginato idealisti e padri fondatori. Si potrebbe quindi ritenere che, almeno dall’unione monetaria e dai trattati capestro in poi, essa abbia deviato rispetto ai suoi nobili scopi originari. Ma non è così.
La moneta unica «non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania, per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro». Tale opinione non è stata pronunciata da un pericoloso populista-sovranista, ma nel 1998 da Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2008. Nel maggio 2012, Vincenzo Visco, ministro dell’Economia dal 1996 al 1998 (Governo Prodi), intervistato da Stefano Feltri per il Fatto Quotidiano, ha rivelato che «un’Italia fuori dall’euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato [rispetto al marco, ndr], così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l’energia. Era un disegno razionale, serviva l’Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull’export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso». Ovviamente, non l’ha fatto, scordandosi dei favori avuti in passato dalle nazioni europee (Grecia compresa), quando era finanziariamente con l’acqua alla gola, dopo la Seconda guerra mondiale (il generoso Accordo di Londra del 1953) e dopo la riunificazione con la Germania est ex comunista (1990).
Allora, perché meravigliarsi che l’Ue non sia affatto un’istituzione della solidarietà, ma della prepotenza, della sopraffazione, persino della derisione di Stati quali Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna. Guarda caso, si affacciano tutti nel Mediterraneo (tranne l’Irlanda) e sono tutti cattolici (tranne la Grecia ortodossa). E almeno offensivo è il noto acronimo Pigs (maiali). Tutto ciò potrebbe anche essere in parte spiegato con l’antico contrasto e la diversissima mentalità tra mondo protestante e mondo cattolico, Nord contro Sud. Un congenito disprezzo del primo per i poveri, i falliti (losers), i pigri, o per chi ha altri valori oltre al denaro. Il pregiudizio potrebbe aver avuto inizio con lo scisma luterano (1517) e con la di poco successiva calvinista dottrina della salvezza per predestinazione divina. Questa, in modo contorto, premia i ricchi virtuosi prescelti da Dio (che sono dotati del Beruf, la vocazione al lavoro-successo-soldi), a scapito dei poveracci, tradizionalmente valorizzati invece dal cattolicesimo. Discorso complesso, affrontato per la prima volta, com’è noto, da Max Weber (1864-1920) nel suo fondamentale saggio del 1904-1905 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ma ormai c’è poco da filosofeggiare.
Ecco, molto alla buona e con lacune, dal 1985 a oggi, alcune tappe del processo di desovranizzazione degli stati europei, di abdicazione verso i poteri sovranazionali e di sottomissione all’Unione a guida tedesca. Beninteso, questi trattati sono stati narrati entusiasticamente dalla stampa allineata; oppure sono stati fatti passare sottotraccia. In entrambi i casi, i loro reali contenuti e, soprattutto, le loro conseguenze sono rimaste ignote alla gran massa dei cittadini; anche perché la “materia” è talmente contorta e complessa che solo una ristretta di “sapienti” è in grado (forse) di districarsene. 1985, Accordi di Schengen. Si dà il via alla libera circolazione dei cittadini nei paesi dell’Unione europea. Ma libere frontiere significa anche che non possono essere chiuse al bisogno, ovvero che gli stati nazionali non hanno strumenti di difesa nei confronti dell’ingresso di criminali o indesiderati, di traffici illegali, contrabbandi, così come pure di merci di ogni tipo. 1992, Trattato di Maastricht. Si prepara l’entrata in vigore dell’euro, quindi la perdita di sovranità (non solo monetaria) degli stati europei. Ma la scelta più scellerata sono i cosiddetti parametri di convergenza strangolastati (ad esempio, sono richiesti, in modo stringente: un deficit pari o inferiore al 3% del prodotto interno lordo; un rapporto debito/pil inferiore al 60%; un tasso di inflazione che non superi di più di 1,5 punti percentuali quello medio dei tre stati membri a più bassa inflazione). Tali “numeri” sono stati giudicati senza senso, cervellotici e irrazionali da molti grandi economisti, e un vero cappio al collo delle nazioni. Nel 1997 i paletti vengono ribaditi col Patto di stabilità. 1999, Introduzione dell’euro, prima come unità di conto “virtuale”, poi, dal 1° gennaio 2002, come denaro contante.
Non s’era mai visto prima che una futura libera federazione di stati o comunità si fondasse su aspetti economici e monetari e non ideali, culturali e politici. Comincia l’austerity, ovvero il miglior modo per causare la stagnazione economica e per far sì che i paesi meno “virtuosi” sprofondino (i già menzionati Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna). Più in generale, tutte le nazioni cedono larghe fette della propria sovranità; e questo vale anche al di là dell’Ue: si pensi all’Onu e alle sue innumerevoli agenzie, nonché alle Ong, opache e ben foraggiate organizzazioni non governative che spesso dettano legge agli stati. Sicché i poteri economici e sovranazionali sormontano quelli politici. E il famigerato Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che ha ridotto i greci alla fame? Chiariamo subito che esso è stato modificato rispetto alla precedente versione (articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) e ratificato dall’Italia con la legge n. 115 del 23 luglio 2012.
State bene attenti alla data: fine luglio, quando gli italiani sono in spiaggia. Come quasi sempre, le leggi-truffa o meno trasparenti vengono approvate con i cittadini distratti. Un’altra precisazione: al contrario di quanto affermato lo scorso 10 aprile in conferenza stampa dall’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con un attacco diretto a Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ad approvare il Mes non è stato un governo di centrodestra, ma il Governo “d’emergenza” di Mario Monti. Votarono a favore compatti il Partito democratico e il Popolo della libertà; la Meloni si assentò, Guido Crosetto votò contro, così come l’intera Lega nord. In effetti, nel 2011 il Governo Berlusconi aveva discusso una prima bozza dell’accordo, ma dai contenuti molto diversi da quelli del 2012. Molto in sintesi, il Mes è, più che un’istituzione, un fondo finanziario con notevoli interessi privati. Esso prevede che lo stato che ne faccia uso subisca un programma di aggiustamento macroeconomico diretto senza pietà dalla famosa trojka Commissione europea, Fondo monetario internazionale-Banca centrale europea: in pratica, un’assoluta abdicazione di potere politico-economico-monetario.
I principali diktat sono: partecipazione del settore privato; riforma liberista del mercato del lavoro; tagli allo stato sociale; riduzione di stipendi e pensioni. Le rassicurazioni dell’Unione europea, pronunciate in pieno disastro economico da pandemia, sulle condizioni favorevoli sul prestito dei 240 miliardi di euro del cosiddetto fondo salvastati-Mes non tranquillizzano nessuno. Non a caso, nessuno stato se l’è sentita di aderire a un meccanismo che può essere successivamente modificato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo, divenendo di nuovo un’inesorabile tagliola. Allora, per rassicurare gli scettici, si è prima parlato di Eurobond, infine di Recovery Fund. Con la benedizione di Angela Merkel. Dunque, la Germania si è all’improvviso convertita a due dei principi fondativi dell’Ue quali la «coesione economica» e la «solidarietà»?
In realtà, com’è noto, il paese teutonico basa il proprio potere sull’export e perciò per esso è vitale sopperire all’attuale crisi di liquidità. Sostenere un po’ le nazioni del Sud Europa devastate dalla crisi (ma anche quelle del Gruppo di Visegrad, dove è stata delocalizzata parte della filiera produttiva industriale tedesca) ha il solo scopo di favorire la propria ripresa economica post pandemia. Il Recovery Fund dovrebbe erogare finanziamenti per 500 miliardi sotto forma di sovvenzioni e 250 sotto forma di prestiti (all’Italia ne toccherebbero rispettivamente 81,8 e 90,9). Ma tali “regali”, come vengono fatti passare dai media “europeisti”, saranno sottoposti a rigide condizionalità quali la richiesta di programmi di riforme strutturali (leggi Recovery Fund, Dombrovskis: “Soldi solo con credibile piano riforme”, in LaStampa.it). E sappiamo bene cosa la nomenklatura Ue intenda per riforme: sregolato liberismo con smantellamento dello stato sociale e vigilanza sulla destinazione dei fondi. Non solo: tali euro arriveranno molto tardi, forse intorno alla metà del 2021. Nel frattempo, molte aziende falliranno o saranno acquisite da gruppi stranieri. In conclusione, ci si può fidare? Risposta: no; il Recovery Fund è un Mes sotto mentite spoglie (vedi anche Ma quale maxi piano Ue. Cosa non vi dicono del fondo anti crisi, in affaritaliani.it)
Torniamo all’origine di tutti i disastri, cioè l’euro. Con la sua introduzione, per l’Italia, che, tra l’altro, non aveva i requisiti richiesti, inizia un inarrestabile declino legato a varie cause. Innanzi tutto, l’altissimo tasso di conversione irrevocabile lira/euro, fissato a 1.936,27 lire/1 euro. Inoltre, la politica economica dell’Italia repubblicana si basava su due strategie ricorrenti. Una era la svalutazione periodica della lira nei momenti di crisi economica per favorire le esportazioni. L’altra consisteva nell’indebitamento pubblico per far fronte ai bisogni immediati e al welfare. Di tale debito, però, attraverso le obbligazioni, erano titolari per la stragrande maggioranza gli istituti di credito nazionali e i cittadini. In pratica, lo stato era debitore di se stesso e per la piccola e media borghesia italiana il deficit era fonte di investimento e di ricchezza. Oggi, dopo il divorzio nel 1981 tra Ministero del Tesoro (ministro Beniamino Andreatta, presidente del Consiglio Arnaldo Forlani) e Banca d’Italia (governatore Carlo Azeglio Ciampi), che era costretta ad acquistare i titoli pubblici del debito non collocati, la maggioranza del deficit pubblico è finito in mani straniere e con alti tassi d’interesse attorno al 4%. Beninteso, si tratta di una schematizzazione semplificata e le strategie economico-finanziarie del passato del nostro Paese non erano esenti da criticità. Ma ora è peggio. Inoltre, coi continui tagli al welfare e con le privatizzazioni, la qualità dei servizi cala e i salari dei lavoratori (spesso precari) delle aziende pubbliche privatizzate scendono. E in questi giorni ne vediamo gli effetti devastanti soprattutto nella Sanità, ma pure nella scuola.
Al contrario, la Germania ha tratto il massimo vantaggio da trattati europei ed euro. Tale moneta, infatti, non è altro che un (vecchio) marco svalutato, che ha favorito l’economia tedesca nello scenario della globalizzazione. L’export tedesco è talmente eccessivo che da tempo avrebbe dovuto essere sanzionato dalla Ue. Inoltre, la Germania ha approfittato del post 1989 per delocalizzare nei paesi dell’Est Europa, colonizzarli e avere manodopera a basso costo. Invece, le nazioni con le monete più deboli e spesso svalutate si son trovati a utilizzare un euro sopravvalutato, che ha danneggiato le esportazioni. Ma la volontà di dominio economico di Berlino sul resto dell’Ue non conosce limiti. Interessantissima è la sentenza del 5 maggio scorso emessa dalla Bundesverfassungsgericht (Bvg, la Corte costituzionale tedesca), che ha sede a Karlsruhe. Essa ha dichiarato la parziale incostituzionalità del Quantitative easing (Qe). Vale a dire la nota misura economica assunta nel 2015 da Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (Bce) dal 2011 al 2019. Un provvedimento di finanza straordinaria ormai divenuto permanente perché decisivo per la stessa sopravvivenza economica dell’Ue. Ma che roba è? Si tratta del massiccio acquisto di titoli di stato da parte della Bce per far crescere il tasso di inflazione oltre il 2%; una modalità per contrastare la deflazione post crisi finanziaria del 2008 e quindi agevolare la ripresa dell’economia del continente e dei paesi che più avevano risentito della crisi. Una misura sempre osteggiata dalla Germania.
Infatti, secondo il pronunciamento della Bvg, sia la Bce sia la Corte di Giustizia europea hanno agito al di là delle rispettive competenze, erodendo così sovranità allo Stato tedesco. Inoltre, la corte di Karlsruhe ha chiesto chiarimenti su obiettivi ed effetti delle politiche economiche e monetarie dell’Ue. La quasi immediata risposta della Corte europea di giustizia è stata che, in base all’elementare nozione di gerarchia delle fonti, le delibere della stessa corte sono vincolanti per le corti nazionali. Tuttavia, Karlsruhe si attribuisce il diritto di vigilanza su Governo e Parlamento tedeschi riguardo l’armonia tra trattati nell’attuazione delle direttive europee e Costituzione germanica. Come si vede, si tratta di materia assai complessa, e non sappiamo se siamo riusciti a fornire un po’ di chiarezza al lettore. Però è evidente come il colosso germanico intenda spadroneggiare, rischiando perfino di mettere in crisi l’Ue che domina e che l’avvantaggia.
Tornando al carrozzone europeo, significative sono le testimonianze di chi lavora nelle istituzioni continentali o degli stessi eurodeputati. Una nostra conoscente impiegata nell’Ue – non ne riveliamo il nome per ovvi motivi – ci ha raccontato di un mondo di privilegiati (parlamentari, portaborse, funzionari, segretarie, traduttrici, persino camerieri, commessi e autisti) che, anche esteriormente, sembrano cloni tecnocratici, che camminano a un palmo da terra, lontanissimi dalla realtà e dalla gente comune. L’ex europarlamentare inglese John Longworth ha documentato in una rubrica sul Daily Telegraph alcune scandalose verità sull’Ue (vedi Nicholas Farrell, La dolce vita dei parlamentari europei, in Panorama, n. 2800, 12 febbraio 2020, pp. 48-51): «Una burocrazia soffocante che trasforma tutto nel modo più complicato e contorto possibile». Del resto, come si sa, il Parlamento europeo non conta affatto. Le leggi sono elaborate e proposte dalla Commissione europea, non eletta da alcun cittadino, senza possibilità di respingimento da parte del Parlamento: «Gli eurodeputati non rappresentano il popolo che li vota. Anzi, fanno solo pubblicità all’eurocrazia che li retribuisce»
Ma quello che maggiormente scandalizzerà il lettore sono i privilegi e i costi astronomici del baraccone di Bruxelles: ogni eurodeputato riceve 8.611 euro lordi al mese, cui vanno aggiunti 4.416 euro mensili per «spese generali», più 325 euro al giorno di diaria per ogni giorno di presenza e viaggi (rigorosamente in prima classe) rimborsati. Non basta: sono disponibili anche 24.943 euro per lo staff, una buonuscita fino a 206.664 euro e dopo un anno si acquisisce il diritto a una pensione pari a circa il 75% dello stipendio. E centinaia di autovetture di lusso a unica disposizione degli eurodeputati, l’invito allo spreco («i funzionari si sono raccomandati con noi neoeletti che era obbligatorio viaggiare nel modo più costoso possibile») e… un enorme ospedale superattrezzato a Strasburgo, sotto il Parlamento europeo bis. Longworth si ferisce un dito al ristorante, vi si reca e lo scopre: «C’è questo centro super attrezzato con ottime equipe di medici e infermieri. Ed erano felici di vedermi perché finalmente avevano qualcosa da fare!».
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 174, giugno 2020)