Della Morte non si parla, è sconveniente. Non quando si è a cena, non con gli amici, i parenti, i colleghi di lavoro o i clienti, non con il sole che batte alla finestra o sul cortile. La televisione ce la porge ogni giorno, come una scatola di cioccolatini. Lo spettacolo della morte, intendo, non il cortile. Questo al massimo si trova dopo, al cimitero. Avanti, scegli pure quello che ti pare, di trapasso: ce n’è per tutti i gusti, meglio che al supermercato. Monaci buddisti in Birmania, giovani e incidenti stradali, ribelli curdi, militari in missione di pace (?), anziani dimenticati in un angolo, dei delitti e delle non pene di casa e Cosa Nostra. E’ anche educativa, la televisione. Se vuoi fare l’anatomopatologo puoi guardare tranquillamente CSI. Scena del crimine.
No, realmente non se ne parla, al massimo si ascolta qualcosa, passivaMente. Si ascolta e si ingoia un boccone del pollo alla diavola che piace tanto, e al diavolo tutti gli accidenti. Sono intorno a noi, è vero, ma ho di meglio, che stare lì a pensare.
Se ti azzardi a uscire dal seminato, se sussurri della morte, qualcuno inizia a toccare un cornetto rosso e qualcuno mette la mano in tasca. E non cerca un fazzoletto. Se è un signore, tocca ferro.
E’ così che inizia lo spettacolo – Poi ti capita di andare a un funerale. Non te lo aspettavi, sembra una cosa così lontana, roba da film. Vedi il cordoglio e l’orgoglio di una vita allontanatasi. Vedi le persone che ami aggrappate a una speranza, poi alla medicina, poi alla fede, e qualcuno, sì, qualcuno anche ai miracoli. Finisce con una salma e la calma se ne va. L’ultimo reparto lo chiamano di “rianimazione”. Tanto per essere chiari: non si rianima nessuno. Semplicemente tengono il malato un po’ là, finché non schiatta, muore, trapassa. Non è un reparto, è un calvario. I medici e gli infermieri escono a fumare ogni cinque minuti. L’uomo è davvero la specie dominante di questo pianeta perché è l’unica capace non di adattarsi ma di anestetizzarsi a tutto. Viene il momento. Ti trovi in ospedale e l’addetto della camera mortuaria parla come un nastro preregistrato, “non mi interrompa, la prego, se no perdo il filo e mi dimentico”, ma qui si è interrotto qualcosa di più di uno stupido filo e tutto degli ultimi giorni si vorrebbe dimenticare, tutto. Anche le lacrime.
Il denaro, prima di tutto – Quando uno muore bisogna fare il funerale. Le pompe funebri a Milano chiedono 5.600 euro. In altre città, non so. Arrivano solenni e sorridenti, sigaretta in bocca. Se sei povero, sono del comune. Si accontentano di 1.600 sacchi. Per essere inumati ci vuole la marca da bollo. Ma se uno i soldi non li avesse, me lo dite cosa succede? Un cadavere lo buttano per strada? Forse era meglio con le infezioni e la peste, qui a Milano, nel Seicento. Almeno chi governava era invogliato a sotterrarli gratis, i morti. Altrimenti erano guai per tutti. Devi scegliere la cassa, la lapide, la chiesa. E’ cattolica e ti sorridono, ti dicono: “Prego, l’offerta è libera”. Poi stanno zitti un secondo e aggiungono – e si vergognano, io lo spero, quando sono soli al cospetto di Dio devono vergognarsi – “minimo 70 euro”. Lo aggiungono davvero. “Portate via questa roba di qui e non fate della casa del Padre mio una casa di mercato”. Non l’ha detto Uno qualunque. Vorrei vedere di nuovo Cristo entrare e cacciarli via a pedate. Il prete fa un sermone di due minuti, ha fretta di finire, è da solo, lassù in chiesa. Non c’è nessuno, neanche un organista o un chierichetto. Fuori il sole è indisponente. Con 70 euro non si fa granché. La morte almeno dovrebbe renderci tutti uguali, ma alcuni sono e saranno sempre orwellianamente più uguali. Il cimitero non si sceglie. Te lo assegnano, ma se hai qualche aggancio lo trovi vicino casa. La bara, quando la chiudono, ha le viti grosse.
Iconografia, musica e immaginazione – Della morte, l’iconografia occidentale non ha capito nulla. La morte non è un sinistro mietitore – preferibilmente di sesso femminile – no, è un burocrate che chiede i documenti prima di inumare il corpo del defunto. Al cimitero arriva un carro dietro l’altro. Funebre. Anche il corteo. E la musica, a volte, è la sola capace di esprimere il dolore. “Stabat Mater dolorosa / Juxta Crucem lacrimosa, / Juxta Crucem lacrimosa, / Dum pendebat Filius. / Dum pendebat Filius“. E allora a me piace immaginare che, nei cimiteri, quando tutti i parenti e gli addetti e i funzionari e perfino gli uccelli che cinguettano irrispettosi se ne sono andati, allora a me piace immaginare che i defunti siano un po’ meno De e un po’ più Funti, siano attivi di nuovo, mi piace l’idea che escano dalle loro tombe e gli uomini regalino alle donne i fiori adagiati con cura sulle lapidi, i bambini si siedano a giocare ai bordi dei tumuli e trovino un pallone, si facciano le squadre e i nonni e le nonne gli carezzino i capelli logori, o quel che ne rimane sulle teste lucide. Mi immagino gli amori: spesso i cadaveri sono vestiti a festa, con l’abito migliore, quello che si mette al matrimonio e poi, davvero, solo al funerale. E’ logico pensare che una scintilla scocchi ancora, quando sei al meglio di te stesso, tirato a lucido, manco ti avessero sgrassato e poi ovattato. Chissà, magari Eros e Thanatos davvero si possono incontrare. Io ci spero.
In un mondo all’incontrario, Qualcuno forse ci ama – Si tratta di risorgere, senza aspettare la “Fine dei Tempi” né una “Fase Hobart” di dickiana memoria. Come nel romanzo In senso inverso, dove i morti si rianimano e a mano a mano ringiovaniscono sempre più, fino a diventare bambini, bambini in cerca di un utero e di un amplesso, per poter tornare dove tutto ha avuto realmente inizio. Un mondo dove le sigarette nei pacchetti sono mozziconi, ci soffi dentro e si allungano, rendono pulita l’aria. Non si mangia, si vomita. E quando il frigo è pieno si va al supermercato per la spesa. E’ un mondo che gira all’incontrario. Tutto sommato, proprio come questo. E’ facile, da immaginare. Uno può credere in tutto o in niente, quando è disperato.
Se ne è andato, ora ci vede, secondo te?
Non mi sembra vero, non è vero.
Non sento niente, ci credi? Non sento niente.
Non c’è più, non c’è più, non c’è più.
Lacrime. Solo fottutissime lacrime. Eppure il cadavere è sereno, sembra che sorrida. Beato, almeno lui. E’ stato male che pioveva. E’ morto che spuntava il sole. Chissà, forse lassù c’è davvero Qualcuno che ci aspetta e che ci ama.
L’immagine: particolare di Cristo morto (tempera su tela, 1480-90, Pinacoteca di Brera, Milano) di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506)
Ivan Libero Lino
(LucidaMente, anno II, n. 23, novembre 2007)