L’opera ha destato polemiche e plausi a Venezia, ma andrebbe valutata a prescindere dal regista
Il regista polacco naturalizzato francese Roman Polański non ha mai smesso di fare discutere. Nemmeno alla 76ª Mostra del cinema di Venezia, dove la presenza del suo nuovo film è stata osteggiata dal presidente di giuria, Lucrecia Martel. Ciononostante, il suo L’ufficiale e la spia (tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Robert Harris; titolo originale del film: J’accuse), nelle sale italiane da oggi, 21 novembre 2019, ha vinto il Gran premio della commissione. Un riconoscimento che, come le critiche succitate, appare più legato alla figura del regista francese che al film in sé.
Le controversie sulla figura di Polański iniziano nel 1977, quando l’artista viene accusato di molestie sessuali ai danni di una minorenne. Un lungo calvario giudiziario e mediatico lo porta, nel 2015, all’esilio definitivo in Francia. Dopo l’onda lunga del movimento Me too, era prevedibile che la partecipazione dell’opera del regista in Laguna avrebbe causato polemiche. Soprattutto se a presiedere la giuria è Martel, madrina del nuovo cinema argentino e femminista convinta. Suo, infatti, il rifiuto di partecipare alla serata di gala per L’ufficiale e la spia: in rispetto, a sua detta, «delle donne argentine vittime di stupro». «Non riesco a separare uomo e artista», ha ulteriormente chiarito Martel in pieno svolgimento del festival. Parole criticate, che hanno provocato la solidarietà a Polański da parte del direttore della Mostra in persona, Alberto Barbera. La giuria, tributando al film un premio ad honorem, ha nettamente preso le distanze dal proprio stesso presidente. Occorre chiedersi quanto tale riconoscimento sia dovuto più alla querelle su Polański che alla qualità dell’opera in sé. La quale, peraltro, racconta proprio del processo più celebre e iniquo della Storia europea.
La vicenda è nota. Ci troviamo nel 1894, a decenni dalla umiliante sconfitta francese nella Guerra franco-prussiana (1870-71), ma con le tensioni perduranti tra i due Paesi. In quell’anno il capitano dello Stato maggiore transalpino Alfred Dreyfus, ebreo, viene accusato di alto tradimento in quanto si sarebbe offerto di vendere ai nemici alcuni segreti militari. Una procedura giudiziaria rapida e inesatta lo porta all’esilio in Guyana francese. L’anno successivo, il neoeletto capo dell’intelligence George Picquart viene a conoscenza di documenti in grado di scagionare l’esule.
Fra sommosse popolari antisemite e interventi dello scrittore Émile Zola, emerge una rete di corruzione che destabilizza l’intero assetto dell’Esercito nazionale. Nel 1906 Dreyfus viene, finalmente, riabilitato. Gli accadimenti reali si ritrovano, intatti, nel film di Polanski. La ricostruzione storica si fa maniacale e filologica, senza alcuna licenza poetica. A impersonare Dreyfus e Picquart, due noti interpreti del cinema francese contemporaneo: un ingessato Louis Garrel e un carismatico Jean Dujardin. La tensione narrativa risulta efficace e coinvolgente, alla maniera dei migliori thriller giudiziari. Tuttavia, è arduo affermare che il prodotto sia fra i migliori di Polański o di Venezia 76. Se, da un lato, la sobrietà antihollywoodiana dell’opera è meritevole, dall’altro rende invisibile la mano di un autore altrimenti riconoscibile. Qualche buco di trama, dovuto alla mole di materiale narrativo, non ne migliora il giudizio in merito. L’ufficiale e la spia potrebbe essere un ottimo film per le scuole: dal punto di vista cinematografico ha però dei limiti che rendono sorprendente il premio ricevuto.
Il dubbio che, davvero, il giudizio sia stato espresso essenzialmente sul regista, rimane. Soprattutto vista la coincidenza infelice fra Polański e Dreyfus, entrambi ebrei, esuli ed eternamente accusati. Eppure lo stessa moglie dell’autore, Emmanuelle Seigner, ha chiarito che, in quanto raccontato nel film, non vi è alcun rimando alla biografia del marito. Quasi a volere chiedere a critica, pubblico e distributori di valutare il lavoro del marito unicamente per le qualità intrinseche.
Le immagini: un fotogramma dal film e un’immagine di Roman Polański.
Michele Piatti
(LucidaMente, anno XIV, n. 167, novembre 2019)