La crisi del potere di Roma durante l’Età imperiale e la nuova religione
La rapida diffusione cristiana (che a noi oggi sembra incredibile) è avvenuta grazie al proselitismo, nonostante le sanguinarie persecuzioni: i primi cristiani non impongono la loro religione, la pubblicizzano attraverso il dialogo edificante, semplice e ispirato. La religione nuova che essi professano non è legata a esoterismi particolari, è comprensibile a tutti.
Naturalmente la predicazione che attrae di più la gente riguarda l’uguaglianza fra gli uomini, specie in un mondo nel quale l’uguaglianza fra gli uomini non è neppure un’ipotesi.
Cristo giunge in una realtà sociale quanto mai verticalizzata. Roma, che domina il mondo, è guidata da un’oligarchia ristretta mantenuta da una massa di schiavi e di plebe, praticamente senza diritti (tranne, per quanto riguarda la plebe, quello di essere foraggiata, subendo però in tal modo l’esautorazione di fatto da ogni rappresentanza civile). È ben nota la non considerazione degli schiavi come uomini e il disprezzo dell’oligarchia romana per la plebe. Neppure i cavalieri (l’ordine equestre), che via via guadagnarono un certo potere con gli intrallazzi commerciali, erano tenuti in grande conto. I soli a godere, formalmente, dei favori del sistema erano i senatori, in quanto, da Augusto in poi, garanti dello status quo (almeno fintanto che gli appetiti imperiali non divennero enormi). La superiorità civile romana, pur essendo quasi solo sulla carta, poteva contare su un grande prestigio, garantito sì dalle armi, ma anche da regole di convivenza ben gestite e mantenute che permettevano all’impero un’esistenza relativamente tranquilla.
Ora, il cristianesimo ribaltava completamente tutto questo, regalava dignità assoluta a ogni singolo individuo: non poteva non avere successo in un mondo che si era evoluto per gli scambi culturali avvenuti, per gli enormi interessi entrati in gioco e per il desiderio di un sistema civile più coerente di quello romano, più equo per tutti. Roma aveva ereditato dalla visione alessandrina, e dall’ellenismo che ne seguì, il concetto di civiltà universale che tuttavia seguitava a mettere in pratica con paternalismo involuto, sicuramente meno apprezzabile, almeno intellettualmente, di quello classico greco (quello pericleo), capace infatti, quest’ultimo, di condizionare l’intero, futuro pensiero umano.
Roma non ebbe mai un personaggio della statura di Socrate, né ebbe un Platone, né un Aristotele: intellettuali amanti dell’uomo in sé, dell’uomo che avrebbe potuto e dovuto essere, del modello umano. D’altro canto, questa civiltà universale veniva esercitata concretamente da Roma (o almeno Roma tentava di esercitarla) sulla base di leggi pratiche, ma anche su proiezioni ideali consistenti nella realizzazione del buon cittadino. Le leggi romane possedevano un’articolazione, una precisione e una fermezza finora sconosciute. C’era una gran volontà di legiferare, per garantire l’ordine pubblico e, ad assicurare il funzionamento delle leggi, c’era la forza militare, mai tanto efficace.
Roma conobbe centinaia di ribellioni che soffocò nel sangue, secondo le usanze del tempo, ma assicurò anche un seguito formalmente decoroso, inglobando gli sconfitti (tolti quelli fatti schiavi per l’Italia) nell’orbita romana. I romani operarono molte distruzioni di città, ma spesso le ricostruirono nello stesso punto, dando alle nuove costruzioni lo status di città romana. Al di là delle intenzioni bellicose, sicuramente preminenti, ma in linea con la storia, i romani coltivavano ambizioni superiori con giusto e pratico spirito paternalistico e progressista in senso di miglioramento dell’uomo e della società umana (basti pensare al famoso Circolo degli Scipioni).
I romani erano fermi, per così dire, al concetto di base – il miglioramento dell’uomo – ereditato dai greci, ma rivolto decisamente nella direzione del cittadino fedele alla patria. Era insomma la romanità a prevalere, era la virtù della repubblica romana a dettare legge: i cittadini si dovevano adeguare perché nulla era più avanzato di questa virtù (peraltro viva per secoli). Ora, si trattava per i non romani di comprendere la carità civile che i romani riservavano loro, ma obbligandoli ad accettare le dottrine dell’Urbe.
La superiorità dell’uomo romano (un concetto di superiorità ereditato dai greci, distorto ad arte secondo il carattere indigeno e secondo le differenti caratteristiche intellettuali) sugli altri uomini, veniva dimostrato dalla diversa mentalità guerresca: i romani concepivano le legioni come forza rappacificatrice, non distruttrice. Altro discorso è il comportamento sul campo di battaglia, ma il carattere di fondo della guerra romana non era quello di annientare il nemico, bensì di farselo amico: certo, a fini di sfruttamento, ma non soltanto.
L’idea civile romana aveva comunque un certo successo. Era questa idea, a rendere l’oppressione di Roma accettabile o per lo meno sopportabile. Nonostante le esigenze della macchina romana, per alimentare la quale Roma ricorreva a esazioni rapinose (anche se, per la verità, vi furono anche ottime amministrazioni), avvalendosi di intermediari senza scrupoli, la gente viveva meglio di quando non era sotto la capitale del mondo.
Con l’impero le cose cambiarono. Per mantenere lo stato imperiale, Roma aveva bisogno di grandi risorse, risorse che i nuovi romani erano obbligati a reperire: una pretesa che fece diminuire la fiducia nella città eterna. Le zone periferiche dell’impero soffrirono particolarmente di questi disagi: là si poteva prendere di più. Le molte crisi economiche imperiali, dovute soprattutto alla necessità di difendere il territorio romano dalle invasioni dei barbari (un territorio in buona parte privato, ma gestito come fosse stato pubblico), impoverirono le città romane e Roma stessa, fecero moltiplicare i poveri, giunti a un numero cui la carità imperiale (tradizionale) non poteva provvedere. Il paternalismo in certo qual modo gettava la maschera: Roma non riusciva a sfamare i propri figli, né voleva più farlo.
I privilegi diventavano palesi e palesemente ingiusti. Le persone comuni erano abbandonate a se stesse. Su questo palcoscenico si presentava il cristianesimo e diceva che gli uomini erano tutti uguali, avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri. Il concetto di uomo così come lo si intende oggi trova conferma qui. Alle parole i cristiani facevano seguire i fatti, provvedendo con sollievi morali e materiali ai fabbisogni elementari della plebe e suggestionando in tal modo la media borghesia del tempo, colpita anch’essa dalla disinvoltura imperiale, la quale tradiva un fondamento d’ingiustizia sociale insanabile.
Le immagini (dall’alto): Roma: Catacombe di Priscilla; iscrizione funeraria con simboli presso le Catacombe di San Sebastiano; Catacombe di Sant’Agnese; Catacombe di San Callisto.
Dario Lodi
(LM MAGAZINE n. 20, 15 ottobre 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 70, ottobre 2011)