Terzo disco (“Die Option”, prodotto ancora da Against ’em all records) per il gruppo rock milanese
Un classicissimo voce-chitarra-batteria-basso per un nuovo disco che colpisce innanzi tutto per la sua energica generosità. Non solo per il numero di brani, ben dodici, ma perché il trio milanese composto da Riccardo Danieli (voce e chitarra), Davide D’Addato (batteria) e Cisco Molaro (basso) sembra veramente non risparmiarsi mai.
Basti pensare al fatto che tutte le tracce sono state interamente composte dai tre musicisti, che davvero ci danno dentro. Stiamo parlando dei The Maniacs e del loro cd, dal titolo teutonico, Die Option, appena uscito per Against ’em all records. Si tratta del terzo lavoro della band (nata nel 2008), dopo due dischi (l’omonimo The Maniacs del 2009 e Cattive madri del 2012) e due ep autoprodotti (Maniac Mansion del 2008 e Material del 2010). Un rock molto “forte”, che a volte sfiora il blues, il punk o l’hard (Free as a Slave), anche se è sempre in grado di alternare ruvidità, asprezze e durezze a brani e momenti di fine e sottile musicalità, quasi progressive. In tal senso, abbiamo molto apprezzato, ad esempio, la creativa, ariosa, Summer, con improvvisi, inattesi cambi di ritmo e sonorità. Davvero singing. Comunque, forse la traccia più riuscita è la sesta, The Liars, caratterizzata da armonie originali quanto raffinate e rigorose. È, invece, classico al 100% il rock di Holland Park o di Phoenix, mentre più soft è quello di A girl called Sunshine.
Per i cultori di una certa età che richiedessero riferimenti/accostamenti riguardo la musica dei The Maniacs, li indirizzeremmo verso i Led Zeppelin, con qualche punta di Deep Purple. Ma non pensino che The Maniacs siano dei semplici epigoni: sono loro e basta. La registrazione di Die Option è avvenuta nello studio Jam Session, alla Bovisa, quartiere alle porte di Milano. E cosa c’è della metropoli lombarda in questo lavoro? La frenesia, le tonalità oscure, il moltiplicarsi di suoni a volte disarmonici, una volontà di grandezza che si mescola a frammentarietà, precarietà e tumulto. Lampeggiamenti si alternano a visioni anomale. Indefinibili, sfuggenti figure saettano in una notte che stenta a spirare. Ombre indefinibili vagano alla ricerca di disperati amplessi sessuali. Estenuate tracce di memorie vengono travolte da un tempo che non lascia requie. E tutto questo, gente, è, alla fin dei conti, l’essenza del rock urbano. Insomma, il rock non è morto. Il rock è vivo. E lo resterà finché esisteranno maniaci del genere più vibrante del mondo, come, appunto, The Maniacs.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno X, n. 112, aprile 2015)
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