Dal “poeta-fanciullino” che svelò l’essenza delle cose al poeta livornese che con stile scarno ed essenziale seppe esprimere l’enigmaticità e l’opacità dell’esistenza. Passando per la straordinaria milanese, morta suicida a soli 26 anni
1912. Poco più di 100 anni fa, moriva uno dei più grandi poeti e letterati italiani, Giovanni Pascoli, che, nato a San Mauro di Romagna nel 1855, si spegneva a Bologna il 6 aprile 1912. Pochi mesi prima, il 7 gennaio, era nato a Livorno Giorgio Caproni, che morirà a Roma nel 1990. E il 13 febbraio la milanese Antonia Pozzi, che si toglierà la vita nel 1938, a soli 26 anni. Per quest’ultima rimandiamo al recentissimo (marzo 2012) sito a lei dedicato. Lucidamente l’ha celebrata con un bel video, nel quale versi, immagini e musica di sottofondo compongono un dolcissimo quadro, languido e struggente, come Antonia. Dei due grandi poeti, ecco, invece, i ritratti di Dario Lodi. (r.t.)
Giovanni Pascoli (1855-1912) è forse il nostro maggior poeta decadente. Il decadentismo è una sorta di fase finale del romanticismo. In Francia si manifesta con poeti come Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, autentici protagonisti della scena intellettuale del tempo. In Italia il fenomeno è stato molto più contenuto, in quanto già il romanticismo da noi aveva attecchito poco. Manzoni è l’unico vero interprete del romanticismo, sebbene in lui tenda a indossare panni religiosi (la sua famosa “provvidenza”). Non è quella manzoniana una religione piatta, ma sentimentale e intellettuale allo stesso tempo. Sta nella riuscita di questo connubio la grandiosità del milanese. La caduta del decadentismo va di pari passo con quella del positivismo: entrambi verranno travolti dalla tragedia della Prima guerra mondiale.
Non dimentichiamo che il positivismo, con la sua fiducia assoluta nel progresso e nella scienza, aveva non pochi punti di contatto con il romanticismo nella pietas verso i più deboli (il paternalismo industriale della seconda metà dell’Ottocento ne è un esempio lampante). Entrambi furono traditi dall’avidità personale e dalla relativa spregiudicatezza comportamentale, grazie all’incompetenza e persino alla connivenza dei vari governi europei. La macchina industriale ubriacò tutti. I romantici reagirono a questa ubriacatura con un malessere di fondo che li trasformò in decadenti.
La letteratura decadente si rifugia talvolta nel mondo infantile. Pascoli respira questa atmosfera e vi si adegua, sinceramente, poetando con apparente semplicità (da qui viene il suo “fanciullino”). Ma certo va oltre. Il poeta romagnolo ha una preparazione accademica, sa di latino come pochi (nella sua vita vincerà per ben tredici volte il concorso di poesia latina di Amsterdam: il suo è un latino agile e forbito, non retorico, concettualmente moderno), e inevitabilmente trasporta questa accademia nelle composizioni in lingua italiana.
La semplicità di Pascoli nasconde, nei suoi lavori migliori (tali vengono considerati le raccolte Myricae e Canti di Castelvecchio), una complessità sperimentale e un rigore compositivo fra i più e meglio articolati. La sua poetica esprime un modo di contemplare le cose che fa riflettere: Pascoli non si lascia andare all’estasi di fronte alla natura, bensì la vive e ne trae considerazioni profonde, in certo qual modo salvifiche. La natura è per lui maestra di vita e di morte. Il poeta è responsabile di non poche poesie svenevoli, il suo nerbo tende a cedere a malinconie deboli, ma, quando resiste e quando si dissocia da reazioni sovrumane e superfetate, Pascoli riesce a trasmettere sensazioni ed emozioni di grande fascino.
È quando si confonde con la natura, con l’umiltà e la modestia del ciclo naturale, che Pascoli sa andare oltre se stesso, ottenendo delle certezze, dei riferimenti assoluti, per quanto modesti, che lo esaltano. Egli entra a far parte del mondo come osservatore privilegiato: celebra questo privilegio con tutto se stesso, senza infingimenti o sovrastrutture. La sua malinconia diviene forte, convincente, in qualche modo costruttiva. Pascoli trasmette una pacificazione conla realtà. Non è una pacificazione forzata, ma avvertita come necessaria, ineludibile e per certi versi positiva: ad esempio, l’intensità della vita e la consistenza del mondo, tra fisica e metafisica.
Tutto, in certa poesia pascoliana, si trasforma in elegia, in un mantra vivo e palpitante, baciato da una bellezza letteraria estetica davvero affascinante. Meglio della frenesia dannunziana, meglio della relativa visione superomistica, peraltro pasticciata all’italiana, con l’uomo che si arroga i diritti edonistici e nessun dovere morale. Figlio di un’Italia ormai minore, in crisi intellettuale a causa del proprio provincialismo a partire dalla perdita della centralità romana (in seguito alla Riforma protestante, a metà del Cinquecento), Pascoli seppe reagire molto bene, recuperando l’alta, la classica sensibilità italiana, unendola a un romanticismo sottilmente impegnato, per nulla provinciale: un mix originale e, a volte, particolarmente incisivo, che convince e incanta.
«Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. // Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa»: celebre poesia di Giorgio Caproni, Concessione, tratta dalla raccolta Res Amissa (Garzanti). Il livornese (1912-1990) è poeta essenziale, fulmineo, a suo modo spietato e sempre sorprendente per vitalità, sia esplicita sia soprattutto implicita. Non gli mancano vezzi, consistenti in fini ironie di fondo, né gli manca qualche sarcasmo, dimostrazione voluta, ricercata, di una sfiducia, forse più letteraria che veramente sentita, nei confronti dell’uomo. Caproni era un grande esperto di letteratura francese (tradusse, fra gli altri, Marcel Proust), ma la sua poesia non risente del simbolismo d’oltralpe. La sua parola è scarna ed egli predilige una costruzione concettuale con spunti intellettuali, sovente debordanti, irrisolti, ma ricchi di possibili, straordinari sviluppi, tipici dei simbolisti francesi.
La costruzione concettuale completa risponde a una certa regola accademica italiana, ovvero a un classicismo onorato dalla razionalità, sebbene con il rischio di un contenimento sentimentale. È un rischio che corre anche Caproni e che nel suo caso si risolve in qualcosa di involontariamente sentenzioso: il poeta si corregge, e spesso prontamente, inoculando al verso un sano scetticismo, reso gradevole da una esposizione molto ben articolata. Caproni predilige la composizione breve, dove può far trionfare il suo punto di vista e dove può far rifulgere la sua abilità incisiva: ma non si tratta, per lui, di sviluppare un mestiere. Il poeta livornese, con acquisizioni genovesi – l’asprezza del verso, l’uso di parole appuntite e una virile malinconia (vedi Eugenio Montale) – lima alla perfezione la sua espressività e con essa va a sottolineare una voglia di chiarezza che suona dignità e decoro, in primis per se stesso.
Caproni fa continuamente i conti con la propria persona e con il relativo rapporto con il mondo, con le cose. Indugia, con fierezza, sull’amaro destino umano e fa della sua delusione un momento riflessivo di forte intensità. Il poeta cela il suo sconcerto per essere in balia degli eventi dietro un dolore intellettuale, che infine lo sorprende per accanimento. C’è nella sua poetica un desiderio estremo di protesta nei confronti del destino, che solo una ragionevolezza davvero notevole, in qualche modo tardiva e in qualche modo non desiderata, riesce a contenere e a indirizzare in modo raffinato. È quasi una consolazione per lui. Caproni non vive direttamente la stagione dell’Ermetismo: gli serve per impegnarsi a trovare i bagliori profondi, l’essenzialità del suo modo di sentire. L’Ermetismo è sostanzialmente votato a una sorta di alto canto vitale, nel quale l’uomo è chiamato a essere protagonista indiretto, ma con attenzione diretta, della realtà.
Il fenomeno ha molte accentuazioni erudite e simboliche, piuttosto diverse dal simbolismo francese, al quale pure si ispira, ma ha pure piglio notarile, quasi potesse padroneggiare persino l’ineffabile. Caproni non è tagliato per questo tipo di retorica, pur sontuosa e quasi mai pedante, egli è molto più portato a stare sul vivo, sull’analisi immediata, senza intermediazioni di sorta (è ciò che accadrà anche a Vittorio Sereni, uno dei maggiori poeti del Novecento, e forse non solo, per quanto riguarda certe composizioni). Il poeta livornese ci fa entrare nella vita attraverso la porta dell’esistenza: si affida alla prima con tenacia invidiabile, ma pensa costantemente alla seconda, nel timore di una perdita irreparabile di tutto, timore che alla fine riscatta con riflessioni distaccate, con rapimenti intellettuali, mai intellettualoidi, e con tanta fiducia sentimentale che sente giustificata.
Le immagini: oltre alle foto di Pascoli e Caproni (fonte: www.ilportoritrovato.net/) e delle copertine di alcuni loro libri, l’articolo è illustrato da alcune foto scattate da Antonia Pozzi – la giovane milanese era appassionata di fotografia – e tratte dal sito a lei dedicato: www.antoniapozzi.it.
Dario Lodi
(LM EXTRA n. 28, 15 maggio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 77, maggio 2012)
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