Dopo le tre ultime riforme dell’Università (dei ministri Berlinguer, Zecchino e Moratti, di centrosinistra e di centrodestra) ce ne sarà una quarta? Dirò che lo ritengo auspicabile, ma a patto si possa stavolta chiamarla “controriforma”. Nel senso che, pur adeguando correttivamente qualcosa ai tempi, essa rappresenti una sostanziale retromarcia rispetto alle novità davvero catastrofiche che hanno, con grave nocumento alla preparazione degli studenti, caratterizzato le altre lungo questi ultimi anni, menomando la funzione docente e inducendo gli allievi a passività, pigrizia e opportunismo. Non tutti, fortunatamente, perché quelli che mantengono egualmente impegno e stimoli interni tesi a risultati ottimali (me ne accorgo in aula, agli esami e nella preparazione di tesi di laurea nelle due Università in cui insegno), nonostante tutto, ci sono ancora. E in questa sede vorrei esaminare proprio cronologicamente tutti i passi indietro che il nostro sistema universitario ha compiuto nel quindicennio che è giusto contemplare, come faccio io con le mani nei capelli, confrontandolo con l’Università che avevo frequentato da studente mezzo secolo fa.
Obbligatorietà della frequenza e semestralizzazione dei corsi – Si era cominciato con la non obbligatorietà della frequenza, prima dovutamente testimoniata sul libretto dalle ripetute firme dei professori. Ammissibile inizialmente solo per studenti-lavoratori, pendolari da aree non vicine, disabili, ma poi assurdamente e nocivamente generalizzata. Come se la sola lettura di libri fosse adeguatamente sostitutiva del rapporto col docente che deve seguirti. Poi venne la semestralizzazione dei corsi, che prima avevano una durata coprente l’intero anno accademico; semestri “convenzionali”, naturalmente, perché la loro effettiva durata possibile è in realtà, dati i periodi di vacanza, di tre/quattro mesi soltanto. Consentendo così ai docenti di spostarsi, pendolari a loro volta, in più di un Ateneo, ma riducendo quantitativamente la didattica nel loro rapporto con gli iscritti ai rispettivi corsi.
Piani di studio acrobatici – E dopo ancora è venuta la suddivisione delle materie in tre “moduli”, con la possibilità conseguente di non seguirle per intero. Potendo cioè anche dare l’esame dopo averne rincorsi, di questi moduli, solo due. E quindi di operare, secondo criterio non culturale ma aritmetico, un raggiungimento del totale necessario di “crediti” (180), incastrando un puzzle di moduli (non tutte le materie e quindi le loro frazioni valgono lo stesso numero di crediti) consistente in un’insalata russa, tuttavia incompleta, di nozioni. Sicché il piano di studi risultante non asseconda più, nella selezione facoltativa delle materie e salve quelle obbligatorie, le vocazioni e inclinazioni dei singoli, ma obbedisce a una contabilità ragionieresca, di mera convenienza, spesso acrobatica.
Quiz e roulette russa – Altra sopravvenienza, non solo, e purtroppo, consentita, ma invalsa in modo dilagante è stata quella, in sede di esami, di sostituire il colloquio docente-allievo con una serie di quiz cui rispondere mettendo la crocetta su una delle quattro risposte possibili (una giusta e le altre spesso ambiguamente o addirittura maliziosamente ingannevoli per similitudine). Così in un’ora si possono liquidare anche duecento candidati e poi decide il computer chi è promosso e chi è bocciato. C’è un libro di un famoso sociopsicologo dell’Università della California, Neil Postman, da cui risulta il carattere quasi criminoso di una tale metodologia che sta a metà fra la Settimana Enigmistica e la roulette russa. Con ciò si dimostra da parte docente, come Postman giustamente afferma, da un lato una gran voglia di comodità e dall’altro un’esplicita rinuncia a voler accertare, come sarebbe doveroso, quale effettiva metabolizzazione dei contenuti appresi ciascun candidato abbia raggiunto, ai fini dell’attribuzione di un voto equo e meditato.
Lauree triennali – Infine le lauree triennali al posto di quelle quadriennali o quinquennali, cui se ne può però aggiungere volendo un’altra, biennale questa e cosiddetta “di specializzazione” (ma in che cosa? dato che ce ne vorrebbero articolatamente diversificate tantissime e invece sono sparute e offrono piani di studi costituenti un’altra insulsa macedonia di materie). E così a chi si vuole specializzare veramente non resta che iscriversi a un costosissimo master, mentre la maggior parte viene gettata sul mercato del lavoro in cerca di precariato con questa “laureetta” di serie B. La quale porta con sé l’aggravante di un regolamento incredibile (l’ho riletto tre volte con la pelle d’oca perché non mi capacitavo potesse essere vero) per cui basta che la tesi sia composta anche solo di quaranta pagine non necessariamente rispondenti a originalità di ricerca e analisi ma anche semplicemente “compilative”. E, riguardo alla commissione esaminatrice delle tesi di laurea, bastano a comporla tre/quattro docenti al posto dei nove/undici del precedente ordinamento.
Professori con contratto di diritto privato – Un fenomeno che accompagna tutto questo è il sempre maggior proliferare, accanto a quelli di carriera, di docenti con contratto di diritto privato, annuale e rinnovabile, come sostituti titolari di cattedra. Hanno gli stessi doveri e diritti degli altri, pur con un trattamento economico incredibilmente inferiore, e qualche volta in certe Facoltà sono addirittura la maggioranza, sicché succede pure qua o là che si sorvoli sulla convocazione dei relativi Consigli per non far trovare in minoranza nelle riunioni i professori strutturati. Il che crea altre situazioni negative ancora, dato che di tali organi pure questi contrattisti fanno parte per legge. Essendo questi comunque di due tipi: specialisti in discipline di recente acquisizione che non sono reperibili negli organici degli ordinari, oppure professionisti o funzionari d’impresa, pensionati o in attività, per cui è interessante aggiungersi quest’altra qualifica. In partenza giustificabile, questo è un fenomeno che sta raggiungendo dimensioni certamente anomale nelle Facoltà cosiddette umanistiche.
Decadenza dell’Università e decadenza della società – E’ un quadro complessivo, quello qui descritto, che non può certamente considerarsi esaltante. Anche perché i corsi di laurea non sono più solo quelli corrispondenti alle professioni fondamentali, ma sono di anno in anno cresciuti fino a raggiungere nazionalmente il numero di qualche migliaio, come non ci fosse più in Italia una tipologia di mestieri e di attività esclusa dall’essere meritevole del suggello di un titolo universitario. Altrove le Università ricoprono ancora il ruolo primario ed essenziale di formare le nuove classi dirigenti di ciascun Paese e, insieme, una serie di indispensabili qualità professionali nei campi che contano per reggere la società. Da noi queste riforme le stanno invece trasformando progressivamente in veri e propri uffici di collocamento. E in tutto questo c’è anche un ingranaggio logico che funziona: se l’Università decade, insomma, è perché l’intera nostra società attraversa un periodo di decadenza. Per aver scritto un paio d’anni fa alcune di queste cose, il cui processo era già allora ben visibile, in un mio articolo su la Repubblica, Un Rettore Magnifico si arrabbiò con me parecchio per i riflessi negativi prodotti sull’immagine accademica, coperta da tabù, anche perché nei giorni successivi vennero pubblicate moltissime lettere di studenti che mi davano ragione. Ma dopo, è onesto dirlo, poiché nulla di sbagliato avevo scritto, dallo stesso Rettorato ho avuto anche un contratto intestato proprio a consulenza progettuale.
L’Università come un prodotto – Un altro elemento di abbassamento qualitativo deriva dal fatto che si è moltiplicato in modo esponenziale in questi anni – concorrenzialmente e per prestigio di campanile – il numero stesso degli Atenei italiani. Per cui non c’è praticamente oggi capoluogo di provincia che non ne abbia ottenuto uno con tanto di beneplacito ministeriale, e finisce pure che molti insegnamenti siano attribuiti per ragion politica. Così come è inflazionato, e continua a crescere, il numero dei giovani che si iscrivono all’Università, più per ottenere curriculum che per vocazione, restando comunque fortissima la percentuale di coloro che alla laurea non arrivano. E anche ciò obbedisce a una logica, per perversa che sia, poiché le Università, tutte in difficoltà finanziarie come le riunioni periodiche dei Rettori documentano, lanciano vere e proprie campagne pubblicitarie per attirare sempre più studenti e avere così maggiori introiti con le tasse. Con slogan ormai di questo tipo: “Vieni da noi che ti diamo questo e ti diamo quello e in tre anni sei dottore in quel che preferisci”. Come se si trattasse di promuovere un prodotto, una merce, con tanto di dèpliant, di manifesti e di spot.
“Numero chiuso” e trasmissione di know how – Ora, è chiaro che il diritto allo studio è qualcosa di insopprimibile che va salvaguardato, però è anche chiaro come, a meno di moltiplicare oltre il possibile gli investimenti per nuove strutture, nuovi spazi, nuove attrezzature, nuove assunzioni (mentre il ministero continua ad apportare sempre ulteriori tagli ai suoi finanziamenti), occorra diventi principio fermo che all’Università si entra per esame di ammissione. Il “numero chiuso” non è una prevaricazione, infatti, ma una garanzia di efficienza didattica e di cura dell’alunno. Una riassunzione di ruolo, insomma, da parte della struttura. Se adesso io ho bisogno di un’aula da 350 posti e gli iscritti al mio corso sono magari un po’ di più, che know how di Scienze della Comunicazione – faccio il mio esempio – gli posso dare in qualche mesetto, parlando col microfono a una platea di volti anonimi e usando una lavagna per cui a quelli degli ultimi banchi occorre un cannocchiale? Dato che, con queste dimensioni d’anfiteatro, sono divenute impensabili pure le esercitazioni. Ma io ricordo benissimo il prima di questa crescita annuale insopportabile, quando in aula avevo trenta/quaranta alunni soltanto e il rapporto insegnamento/apprendimento allora sì che funzionava, perché si poteva formare un tessuto dialogico di conoscenza ed esperienza individuale che permetteva selezione e progresso.
L’abbandono di Claudio Magris – Non potrò mai dimenticare l’articolo pubblicato su un’intera pagina del Corriere della sera a firma di uno come Claudio Magris, nel quale egli spiegava perché si dimetteva dalla sua cattedra triestina mettendosi in pensione con tre anni di anticipo, non riconoscendo più nella trasformazione subita dall’Università il mantenimento di quel ruolo essenziale, nella società e nel rapporto con le giovani classi, che dava un senso alla sua esistenza. Il mondo dell’Università avrebbe dovuto mettere il lutto per questa illustre perdita, e invece subito calcolò che, risparmiando il suo stipendio, poteva assumere un paio di professori più giovani e anche un altro impiegato.
La necessità di una cocciuta “controriforma” – E con questa tristissima notazione concludo, tornando all’assunto con cui avevo cominciato questo scritto. Che occorre cioè soffi sull’Università da parte del Governo un vento fortissimo di “controriforma”. Ogni anno che passa senza che questa vada in cantiere rende più insopportabile e difficilmente rimediabile la situazione. Parlo spesso e assai di tutto ciò con i molti ragazzi e ragazze, più impegnati nello studio e ricchi di risorse e fantasia, che chiedono di laurearsi con me (ne ho una diecina per sessione), pur sapendo che io non mi contento di quaranta facili pagine come si trattasse di una di quelle tesine che assegno invece agli esami, e li trovo avversi alla futilità e disperati quanto me per come viene preparato il loro futuro. In un mondo più portato a laureare a furor di popolo veline e goleador e dove cresce il disamore per la politica, un tempo arte creativamente civile e ora teatro dove agiscono, nella peggiore delle ipotesi, arrivisti di potere e, nella migliore – ahimé -, degli incapaci che fanno venire il latte alle ginocchia. Bisognerà essere molto cocciuti per tentare di superare tutto questo.
L’immagine: La lezione di Oxford, rilievo alla base del Monumento a Giordano Bruno (1888, Campo dei Fiori, Roma) di Ettore Ferrari (Roma, 1848-1929).
Etrio Fidora
(LucidaMente, anno II, n. 22, ottobre 2007)