Il castello, nell’immediato Dopoguerra, era diventato rifugio di molti senza tetto, gente privata della propria abitazione dai bombardamenti che avevano infierito sulla città durante la guerra da poco conclusa e di sfollati provenienti anche da paesi vicini alla ricerca di una nuova vita, dopo i travagli e gli orrori della guerra. C’era chi s’era sistemato al suo interno, nei vari anfratti e in alcune baracche che fino a qualche tempo prima erano stati gli alloggi dei soldati del presidio. Era abitata anche una delle torri, quella detta “comandante”, e vi si accedeva da una postierla che si apriva alla base. Non solo, tante famiglie alloggiavano in modo alquanto precario e disagiato all’interno della palestra del liceo, in piccoli spazi ricavati e delineati da pareti di tavole e cartoni che contenevano pochi, essenziali mobili. Altri avevano trovato rifugio in quella che fu una cabina elettrica, dismessa ormai da molto tempo e situata nei pressi dell’ospedale, diruta già prima della guerra e mancante del tetto; quest’ultimo era stato ricostruito con mezzi di fortuna.
Nel castello abitava fra gli altri un tale Giorgio, che noi chiamavamo Giorgio du casteddu o Giorgio d’a luna, poiché si diceva che soffrisse del mal di luna. Probabilmente era solo (per modo di dire) epilettico. Era un omone, coi capelli praticamente rasati a zero, che camminava strascicando un poco i piedi. Aveva lo sguardo leggermente all’insù e leggeva il giornale tenendolo al contrario. Allora, nel Quarantotto, era molto sentita la campagna elettorale e il paese era letteralmente tappezzato di manifesti con falce e martello, scudi crociati, immagini di Garibaldi, che, capovolte, prendevano i tratti del viso di Stalin. Quando Giorgio passava dalla strada che conduceva al castello, veniva spesso fermato dalle donne che gli chiedevano: “Giorgio, che dice il giornale oggi”? E lui, tenendo il giornale (l’Unità) sempre capovolto, leggeva brani di articoli o riassumeva quelli che aveva letto. Il paese all’epoca era, e per lungo tempo rimase, comunista.
Addolorata era una delle figlie della famiglia che abitava la torre, e assolutamente non si sarebbe potuto confrontarla con una adolescente di oggi. Benché giovane, aveva forse sedici anni, portava i capelli avvolti in una crocchia formata da treccine raccolte sulla nuca, assolutamente senza trucco – normale in un periodo dove il sapone, già di precario uso, era diventato un oggetto misterioso.
Indossava, come sua mamma e sua nonna, una gonna lunga e pieghettata che denunciava, assieme al suo accento, la provenienza da qualche paese della montagna dell’entroterra catanzarese. Oggi sarebbe stata una bella ragazza; anzi, bella lo era anche allora, solo che la pelle scura, i capelli tirati, il vestito che più che vestire copriva, la mancanza assoluta, come dicevo, di trucco e di sapone, rendeva difficile qualsivoglia attrattiva. La si poteva vedere al lavatoio che era situato poco distante dalla torre, in quello che fu il fossato del castello, in compagnia della mamma e delle sorelle, che facevano tutte le lavandaie.
Giorgio quella bellezza l’aveva notata, e non perdeva occasione di osservarla di nascosto. In quel periodo, la cortina muraria compresa fra la torre “comandante” e il baluardo San Giacomo era diroccata, e le macerie offrivano parecchi punti per appostarsi.
Gli mancava il coraggio di parlarle. E lui, che stupido non era, capiva di essere più vecchio e di non essere bello. Il suo male lo faceva guardare con sospetto dalla gente, e, a parte qualche battuta scambiata occasionalmente con persone di passaggio, non aveva frequentazioni di alcuna specie, né con amici, né con parenti. Anzi parenti non ne aveva proprio e viveva svolgendo umili incombenze al seguito della “carovana della stazione”, compagnia di scaricatori dei vagoni ferroviari operante sia alla stazione che al porto.
Giorgio viveva del pensiero di Addolorata ed era lei l’ultimo pensiero ad abbandonarlo, la sera. La vedeva sua sposa, mamma dei suoi figli, seduti insieme la sera, intorno al lume.
Ma non aveva il coraggio di avvicinarla; ne era intimorito, temeva un rifiuto, non voleva affrontare i fratelli che certamente avrebbero tentato, per così dire, di dissuaderlo; non che ne avesse paura, ma non voleva avere niente a che fare con loro, notoriamente turbolenti e inclini alle risse.
Giorgio era brutto, era forte, era buono.
Avrebbe voluto che la vita gli facesse il regalo del bene di Addolorata.
Si macerava in questo suo desiderio e per di più veniva fatto oggetto di scherzi da parte dei compagni della “carovana”, che non si sa come, avevano saputo di questo suo struggimento e non perdevano occasione per schernirlo, urlandogli di faticare di più e pensare meno a ‘Ndolirata.
E questo non lo aiutava, né lo confortava in alcun modo.
Così passavano i mesi e le stagioni. Giorgio sempre innamorato, Addolorata sempre distante, col pensiero che nemmeno la sfiorava.
Accadde poi, a un tratto, che Addolorata smise di uscire. Si vedevano fuori i fratelli, la sorella, più raramente la mamma. Lei no! Ogni appostamento di Giorgio, per molti giorni, andò deluso.
Seppe dai compagni della carovana, alcuni dei quali conoscevano i fratelli, che Addolorata era ammalata. Aveva preso la terzana, ancora diffusa in quell’immediato dopoguerra e che continuava a mietere le sue vittime assieme alla tubercolosi. Quelle erano le cause più frequenti di decesso e i morti in giovane età in quegli anni erano molto numerosi, malgrado non vi fossero ancora le vittime di incidenti stradali o di droga.
I giovani morivano soprattutto di malaria e tubercolosi. Qualcuno per scoppio accidentale di ordigni bellici.
Giorgio visse giorni spasmodici in attesa di un miglioramento dell’amata; non sapeva a chi chiedere; cercava di interpretare le fisionomie e gli atteggiamenti dei familiari che entravano ed uscivano dalla porta angusta della torre. Questa attesa durò fino a quando, una sera, dalla torre uscirono urla che non avevano niente di umano e capì che il chinino non aveva potuto far niente contro la malattia, che Addolorata non c’era più, anche se per lui non c’era stata mai. Capì che la sua vita era finita pur’essa, ora che non aveva più nessuno a cui pensare.
I suoi giorni cominciarono a scorrere lenti e monotoni, non mangiava e non dormiva. La notte usciva e girovagava sui bastioni piangendo e gridando il suo dolore.
Una notte, in cui la luna piena illuminava il cielo, lo colse una crisi della sua malattia che lo costrinse a terra, in preda a spasmi che lo facevano contorcere e ululare, accreditando la convinzione che fosse ammalato di luna, cosa che il popolino associava all’essere lupo mannaro. Appena le convulsioni gli dettero tregua, si alzò e si mise a correre guardando in quel suo modo caratteristico il cielo, e corse, corse, non accorgendosi di avvicinarsi pericolosamente al limite del muro crollato. Mise il piede su un ciuffo d’erba e scivolò battendo più volte la testa e il corpo sulle pietre del masso che poggiava in maniera sbilenca sul terrapieno. Anche lui finì sul terrapieno, col sangue che bagnava i ciuffi d’erba e le pietre, che la luce della luna faceva brillare. Stette lì immobile, con lo sguardo che oramai non vedeva, rivolto all’insù, con l’espressione serena di chi aveva capito che oramai il ricordo di Addolorata era finito e cominciava la speranza, anzi la certezza di incontrarla, là, dove erano tutti belli e dove non esistevano malattie, dove avrebbe potuto parlarle e dove avrebbe avuto la possibilità di cominciare con lei quella vita tanto sognata che ora era possibile sperare.
Giorgio morì, così come aveva vissuto, all’ombra del castello, sua casa e suo inferno. Aveva sul viso il sorriso beato di chi ha ormai raggiunto la pace.
(Giorgio d’a luna)
Antonio Nicoletta
Sessantenne, originario di Crotone e residente in Sicilia, l’autore di questo notevole racconto è stato consulente chimico per varie importanti aziende, e oggi è in pensione. La sua esistenza e i suoi interessi sembrerebbero essere, quindi, lontani dalla cultura umanistica, invece da anni scrive di storia e letteratura.
IL COMMENTO CRITICO
“Nel castello abitava fra gli altri un tale Giorgio, che noi chiamavamo Giorgio du casteddu o Giorgio d’a luna, poiché si diceva che soffrisse del mal di luna”.
I personaggi principali – Incipit fiabesco e velato di rimandi misteriosi a epoche e credenze popolari che cadenzano la narrazione, ne costituiscono l’ordito. Giorgio d’a luna è un racconto lineare, fluido nella sua semplicità, malinconico. Come il suo protagonista: “Giorgio era brutto, era forte, era buono”. E malinconica è anche la figura di ‘Ndolirata: “Benché giovane, aveva forse sedici anni, portava i capelli avvolti in una crocchia formata da treccine raccolte sulla nuca, assolutamente senza trucco – normale in un periodo dove il sapone, già di precario uso, era diventato un oggetto misterioso. Indossava, come sua mamma e sua nonna, una gonna lunga e pieghettata che denunciava, assieme al suo accento, la provenienza da qualche paese della montagna dell’entroterra catanzarese. Oggi sarebbe stata una bella ragazza; anzi, bella lo era anche allora, solo che la pelle scura, i capelli tirati, il vestito che più che vestire copriva, la mancanza assoluta, come dicevo, di trucco e di sapone, rendeva difficile qualsivoglia attrattiva”.
Verso un finale drammatico – L’Italia del Dopoguerra, povera, misera, arretrata e vinta, fa da sfondo a questa storia di amore e speranza, attesa e rassegnazione. Giorgio si innamora di Addolorata “da lontano”, solo guardandola. Lei non sa neppure che lui esiste. Ma tanto basta a Giorgio, per trasformare quel borgo arroccato e sperso tra le montagne della Calabria, in un luogo pieno di bellezza e vitalità. La bellezza e la vitalità che solo chi è innamorato può trovare ovunque e in qualsiasi condizione. Ma l’incantesimo si rompe: “Accadde poi, a un tratto, che Addolorata smise di uscire”. E’ una frase-chiave, è un punto di non ritorno oltre il quale la vicenda, finora piana, lenta, precipita verso un finale drammatico non solo dal punto di vista emotivo, ma anche dal punto di vista tecnico. Drammaticità, evocatività, ricordo, sono i colori della tavolozza di questo artista che ci ha regalato una pausa tra la muta parola della quotidianità e la frenesia del nostro tempo.
L’immagine: gli strumenti di propaganda anticomunista usati durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, dei quali si parla nel racconto (“immagini di Garibaldi, che, capovolte, prendevano i tratti del viso di Stalin”).
Alessandra Casaltoli
(LucidaMente, anno III, n. 27, marzo 2008)