“LucidaMente” ha intervistato l’autrice a proposito del suo nuovo libro, nel quale si interroga sulla piaga del dover comprare “a tutti i costi”
Si chiama Liberi di non comprare. Un invito alla rivoluzione (Ps Edizioni, 2018, pp. 124, € 12,00) il nuovo libro della giornalista, fotografa e viaggiatrice in solitaria Raffaella Milandri (vedi Il Nepal dopo il terremoto). Un libro che nasce dall’esigenza di far riflettere e di scuotere le coscienze riguardo al consumismo, un sistema globale che, a parere della scrittrice, «detta legge nelle nostre vite, togliendo senso alla Vita reale, che deve essere in armonia con la Natura, rispettare il pianeta e condurre a un’elevazione personale e spirituale». A questo proposito, le abbiamo rivolto qualche domanda.
Dottoressa Milandri, qual è il senso di “invitare alla rivoluzione” del non comprare in un contesto consumistico e capitalistico?
«La rivoluzione di cui parlo nasce da noi stessi e sta nel ridimensionare l’imperativo dell’Avere in favore di quello dell’Essere. È un invito a riappropriarsi e a godere delle relazioni umane che non siano in funzione del denaro, a rispettare la natura, consumando di meno e producendo meno rifiuti. Nessuno di noi potrà avere nella vita tutto quello che desidera o, almeno, quello che il consumismo ci induce a voler possedere; perciò la vittoria, la rivoluzione, è nella spoliazione, nella rinuncia, nel distacco dai beni materiali e dal consumismo. Questo sistema economico non solo avvelena la nostra esistenza e il nostro spirito, ma anche il pianeta, la nostra madre Terra, piena di ferite causate dall’immorale determinazione a guadagnare. Non dobbiamo certo fare come Jesus [il suo interlocutore principale nel libro, ndr] che è diventato un senzatetto, ma dobbiamo prendere coscienza che abbiamo il potere dei consumi e degli acquisti e, quindi, possiamo anche “scioperare”».
Secondo il suo pensiero, qual è il rapporto che s’instaura, nel mondo moderno, tra consumismo e libertà?
«Il consumismo ci rende schiavi, è una fallace fata Morgana che ci induce a correre in una ruota da criceti. È un sistema subdolo e complesso che agisce sul senso della vita stessa, creando nelle persone più sensibili un senso d’inadeguatezza che ammorba e deprime. La libertà sta nel restituire valore alla propria esistenza, acquisendo la consapevolezza che comprare non è il motivo per cui siamo venuti al mondo».
Nel saggio ci sono numerosi interventi di esponenti di popoli con una struttura sociale ed economica diversa da quella occidentale. Che cosa pensano loro del nostro processo di sviluppo? E quanto esso sta influenzando anche la loro vita?
«La struttura sociale dei popoli indigeni è storicamente refrattaria all’accumulo insensato di beni materiali. Le comunità vivono (o vivevano) in terre dalle quali ricavavano tutto il necessario, dalle medicine naturali al cibo, dall’acqua ai ripari, non creando colossali quantità di rifiuti o gravi disparità sociali. Il mancato accumulo di beni – che nella nostra civiltà è iniziato con la nascita della società a base agricola – ha permesso ai popoli indigeni di vivere in luoghi dove le risorse si sono sempre rigenerate in funzione del rispetto della natura (vedi anche Raffaella Milandri tra gli inuit). Tali popolazioni chiedono di essere libere di mantenere la loro cultura e le loro tradizioni e sono in profondo disaccordo con il nostro metodo “di sviluppo”, soprattutto per il modo in cui violenta l’ambiente. La stessa esigenza di questo libro – i cui principi sono già disseminati nei miei altri scritti – è nata dai miei viaggi e dal contatto con culture e società così diverse dalla mia (vedi anche Caccia alle “streghe” in Papua Nuova Guinea). Conoscere il diverso apre la mente e il mio rapporto con i popoli indigeni, inclusa la mia adozione presso il popolo dei Crow negli Stati Uniti e quello dei San in Botswana, hanno avuto per me un ruolo determinante».
Andando totalmente contro il sistema che lo regola, non c’è il rischio di trovarsi “esclusi” dal mondo?
«No, affatto. Il sistema capitalistico non fa parte di noi e dei nostri valori di uomini: è un marchingegno diabolico e alieno che ci spersonalizza. Non occorre andarvi totalmente contro, è sufficiente cambiare l’ordine delle priorità e smettere di trasformare la nostra vita in un lavoro continuo atto a produrre denaro per poi spenderlo. La gratificazione personale non deve venire dagli acquisti che siamo in grado di fare. Il sistema globale ci vuole consumatori, non persone, e crea in noi un vuoto derivante dal non riuscire a soddisfare quelli che in realtà sono falsi bisogni. Si trascura il benessere e il pregio della realtà umana».
Che cosa ci invita concretamente a fare il suo saggio?
«Il libro invita a riflettere, è una provocazione. Bisogna smettere di accumulare cose materiali che, una volta lasciato questo mondo, non ci serviranno a nulla. Dobbiamo abbandonare la “ruota da criceti” dove ci hanno collocato. Le aziende ci trattano come numeri, producendo merce sulla base delle statistiche delle vendite, ovvero dei nostri acquisti, e non in base alle effettive necessità; e questo è alla base degli enormi sprechi di risorse del pianeta. Ad esempio, ogni anno vengono allevati oltre settanta milioni di animali – pesci esclusi – destinati a finire sulle nostre tavole, spesso in allevamenti intensivi, geneticamente modificati e trattati con antibiotici, privati della loro identità e dei loro comportamenti naturali. Tutto questo solo per riempire banconi dei supermercati di cose che forse decideremo di comprare, ma che in gran parte andranno buttate».
Le immagini: la copertina dell’ultimo libro di Raffaella Milandri, Liberi di non comprare; due fotografie della scrittrice.
Sara Spimpolo
(LucidaMente, anno XIV, n. 158, febbraio 2019)