La diffusione della letteratura statunitense in Francia fu accolta da ammirazione entusiastica, ma anche da preoccupazioni e critiche severe
«Simili a quei viaggi di andata e ritorno, compiuti sulle linee della Compagnia Generale Transatlantica» (Michel Murat), gli scambi culturali tra gli Stati Uniti e la Francia hanno oscillato sempre tra il timore di un’“americanizzazione” della società di uno dei più importanti Paesi europei e la speranza di un possibile “ringiovanimento” delle forme artistiche del vecchio continente.
Se la seduzione per la letteratura d’oltreoceano è già individuabile nel poeta Jules Laforgue, traduttore delle opere di Walt Whitman, è dal 1945 al 1947, dopo lo sbarco degli alleati in Normandia e fino all’inizio della Guerra Fredda, che i consensi da parte del pubblico francese raggiungono il loro apice. L’immagine dello scrittore anticonformista, che «predilige l’azione all’analisi psicologica» (Roger Leenhardt) e vive lontano dai circoli intellettuali ristretti e soffocanti, è una delle ragioni per cui gli autori americani verranno considerati come una fonte di energia e di vitalità. Le loro opere sono così onnipresenti che in un primo momento ci si limita a prendere atto del fenomeno e a constatare che questa voga coinvolge in primis il romanzo e quegli stessi intellettuali che avevano forgiato la letteratura dell’entre-deux-guerres: Jean-Paul Sartre, Georges Simenon e Boris Vian. Saranno loro, infatti, a dare vita a un nuovo canone letterario che comprenderà John Dos Passos William Faulkner, John Steinbeck, e, ovviamente, Ernest Hemingway, definito “lo Stendhal degli Stati Uniti”.
Le motivazioni dell’affermazione di quella che in principio veniva considerata una “moda effimera” sono da ricercarsi nella crisi del romanzo francese, legato a forme tradizionali di scrittura, che non erano al passo coi tempi. Esso appariva privo di quell’originalità tipica del romanzo americano che, rinnovando le sue tematiche e le sue stesse tecniche narrative (dal simultaneismo alla moltiplicazione dei personaggi secondari), si mostrava capace di resistere non solo all’avanzata del cinema, ma di diventare persino la sua principale fonte di ispirazione. La diffusione che conobbe fu così rapida e massiccia da spingere il giornalista Raymond Dumay a paragonare la letteratura statunitense all’Invincibile Armata e quella francese alla corazzata Bismarck (affondata nel maggio del 1941).
Ad alimentare l’entusiasmo del pubblico francese furono Gertrude Stein, mecenate e scopritrice di giovani talenti, nella Parigi degli anni Venti dello scorso secolo, Sylvia Beach e Adrienne Monnier, creatrici delle due celebri librerie Shakespeare and Company e La Maison des Amis des Livres, che ebbero il merito di lanciare sul mercato editoriale francese le novità provenienti dal nuovo mondo. A tutto ciò occorre aggiungere il ruolo svolto da riviste quali This Quarter The Transatlantic Review e Transition, che pubblicavano opere nelle due lingue, a dimostrazione della «libertà che regnava nella scelta dei testi pubblicati» (Anne Cadin). L’interesse crescente per la letteratura straniera spinse il mercato editoriale a investire nella creazione di nuove collezioni, per permettere al lettore di familiarizzare con i grandi autori contemporanei. Quando, poi, a partire dagli anni trenta, cominciarono a circolare le prime traduzioni, volute da Gaston Gallimard, un’altra barriera fu finalmente abbattuta: quella linguistica, che aveva creato non pochi ostacoli nella fruizione di molti capolavori. I biografi di Simone de Beauvoir ci raccontano, ad esempio, che lei stessa ebbe a lamentarsi perché trovava «incomprensibile» l’opera di Faulkner e si rammaricava di non riuscire a coglierne appieno il pensiero.
Le mutazioni di gusto del pubblico francese sono individuabili anche nella reazione positiva all’introduzione di un altro genere, quello dell’hard-boiled di Dashiell Hammett e di Raymond Chandler, che recherà un aumento senza precedenti del numero di lettori. È la Liberazione il momento in cui la Série Noire si diffonde in modo capillare. Non bisogna sottovalutare, d’altra parte, che la noia, il coprifuoco, l’assenza di distrazioni, che avevano contraddistinto il periodo bellico, avevano spinto il pubblico verso nuove forme di intrattenimento. E sarà proprio la critica francese – ci ricorda Jean Bourdier – a tentare di definire per la prima volta questo genere, apprezzato negli Stati Uniti già da venticinque anni, usando le denominazioni di roman noir e di film noir.
È solo nel secondo dopoguerra che questo interesse comincia ad affievolirsi. Gli intellettuali che guardano con sospetto a tutto quanto giunge dall’America diventano sempre più numerosi a partire dal 1947 e, lentamente, si fa strada anche l’idea che la stessa letteratura agisca come un potente veleno in seno alla società francese. Sartre, nella serie di articoli scritti per la rivista Combat con il titolo di Un français à New York, assume per la prima volta un atteggiamento freddo e distaccato, sebbene ancora ambiguo, nei confronti di ciò che aveva suscitato in lui tanta ammirazione. Saranno la guerra di Corea, il caso Rosenberg e gli effetti negativi del capitalismo a spingerlo a interrompere definitivamente un rapporto che giudicava oramai scomodo e imbarazzante. Intervistato sulle nuove tendenze del romanzo americano, si rifiuterà di esprimere la propria opinione, adducendo come pretesto la sua scarsa conoscenza della cultura d’oltreoceano. Nella stessa occasione non mancherà di sottolineare anche la sua disapprovazione per la tendenza generale a rifiutare il ruolo primario dei grandi classici.
Il “momento” americano si avvia definitivamente verso il suo declino con l’entrata in vigore della legge del 16 luglio del 1949 sulla tutela dei minori, che censura molte opere provenienti dal nuovo mondo, vietandone di fatto la pubblicazione e la vendita. Se a partire dal 1950 i critici ricorrono a termini come “minaccia” (menace) e “contagio” (contagion) per esprimere il proprio dissenso verso l’influenza che la cultura statunitense aveva esercitato, nessuno poté comunque negare che gli effetti di quella “invasione” (invasion) erano stati tutt’altro che trascurabili: il lavoro di imitazione, in un primo momento, e di affrancamento, dopo, avevano dato indubbiamente i loro frutti. Alimentando le riflessioni sui limiti del romanzo francese, avevano consentito di sperimentare, infatti, nuove forme di creatività e ridato vita a un genere che in molti avevano bollato come “moribondo”. Sbagliando di grosso.
Marilena Genovese
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 186, giugno 2021)