È una storia vecchia quanto il mondo: lo sconosciuto, il diverso, l’altro, che bussa alla porta di casa. A volte lo fanno entrare, a volte no. Ma anche quando entra spesso riamane lì, in un angolo, rintanato, da solo, senza avvicinarsi, senza “mischiarsi”, senza integrarsi. E non si sa mai bene se è lui che è timido e restio o sono gli altri, quelli di casa, ad essere poco gentili, poco ospitali.
Succede più o meno questo anche in Italia e in particolare a Bologna, dove, dei 65 mila immigrati (fonte Istat dicembre 2006) che hanno bussato e sono entrati, alcuni si sono integrati, altri sono ancora lì all’angolo.
Razzismo, integrazione, accoglienza. Su questi punti si snoda il percorso che abbiamo intrapreso per studiare un fenomeno mai così attuale e mai così “politico”. Abbiamo ascoltato l’opinione a riguardo di immigrati, esperti operanti nel settore e anche di alcune insegnanti per quel che riguarda l’ultima “idea” lanciata nei giorni scorsi da alcuni esponenti della Lega e immediatamente approvata: le classi-ponte.
Integrazione: un problema etnico-culturale? Colloquio con Paolo Mengoli della Caritas
Sul tema dell’integrazione abbiamo parlato con Paolo Mengoli, direttore da cinque anni della Caritas di Bologna. “Il paese di provenienza, il gruppo etnico di appartenenza non possono essere dei validi indici per giudicare l’integrazione di un individuo. Non esistono etnie propense ed etnie restie a integrarsi. Non importa essere sudamericani o pakistani o marocchini”.
Cosa importa allora?
“La distinzione da fare è un’altra: ci sono alcuni immigrati che potremmo definire “temporanei”. Loro sanno già che rimarranno per pochi anni in Italia e non hanno né voglia, né bisogno di radicarsi culturalmente in un Paese che non sarà mai il loro”.
Poi aggiunge: “Diversa è la situazione per chi lascia definitivamente il proprio Paese. Magari per contrasti politici o religiosi. In questi casi interviene un insito desiderio di spogliarsi, anche solo parzialmente, della propria identità precedente per iniziare nel migliore dei modi una nuova vita. E quindi si tende a velocizzare il processo di integrazione, senza però mai perdere le radici”.
Si comincia a parlare di popoli ed etnie: “Noi, per esempio, qui a Bologna abbiamo un nutrito gruppo di immigrati sudamericani, in particolare peruviani. Loro ci tengono molto ai loro riti religiosi e ad altre usanze culturali. Da questo punto di vista potrebbero definirsi più “gelosi” dei loro costumi e quindi anche meno interessati ai nostri. I cinesi, invece, sono un caso a parte. Hanno un’impressionante capacità di adattamento, dovuta probabilmente al processo di occidentalizzazione che sta vivendo il loro paese”.
Numeri e statistiche
Un indice importante, forse l’unico che può essere preso in considerazione per definire quanto un gruppo etnico sia effettivamente integrato, è la presenza di uomini e donne. “Il fatto che ci sia un quantità più o meno paragonabile di uomini e donne dello stesso paese di provenienza può essere l’unico indice valutativo”.
Così conclude il direttore Mengoli. “Se ci sono tante donne e pochi uomini vuol dire che il fenomeno migratorio non è teso ad una stabilità e ad una certa durata temporale. Non c’è l’intenzione di fare famiglia, di mettere radici. Probabilmente si tratterà di sfruttamento della prostituzione”.
Alcuni esempi di questo genere vengono dai Paesi dell’Est europeo: per l’Ucraina 222 maschi e 1311 femmine (Istat 2006), per la Moldavia 406 a 870, per la Romania 707 a 1024. “Lo stesso dicasi nel caso inverso. Laddove vi è un forte squilibrio nel senso opposto, si tratta di lavoratori venuti per guadagnare, per migliorare la propria situazione e poi tornare al proprio Paese, il prima possibile”. È questo il caso del Bangladesh, con 1675 maschi e 831 femmine; del Pakistan, con 1042 maschi e soltanto 225 femmine, o di alcuni Paesi africani come Senegal ed Egitto, rispettivamente con 237 e 250 maschi e solo 72 e 68 femmine.
Intervista a un palestinese
Via del Pratello. Entriamo in uno dei tanti rivenditori di kebab. E’ vuoto. C’è un signore di mezza età. Proviamo a fargli qualche domanda.
Salve. Sono un giornalista. Sto preparando un articolo sul fenomeno dell’immigrazione visto dagli immigrati. Potrei farle qualche domanda?
Scuote la testa, a metà tra lo sconsolato e l’infastidito. Poi dice:
“Cosa vuole che le dica?! Non vedo l’ora di andarmene da questo Paese di merda!”.
Trova che l’Italia sia un Paese razzista?
“Certo! Come pochi altri! Ma prima non era così. E’ tutta colpa dell’informazione, della comunicazione. Continuano a ripetere sempre che gli immigrati ammazzano, violentano. Ma non è così. Sembra che tutto dipenda da noi. C’è crisi ed è colpa nostra. C’è fame ed è colpa nostra. C’è disoccupazione ed è colpa nostra… Poi il governo ci aggiunge del suo…”.
In che senso?
“Beh, ora la situazione è peggiorata. Le ultime leggi hanno reso il Paese invivibile. Io me ne andrò molto presto. L’ho capito tardi, ma l’ho capito”.
È molto che è qui?
“Trent’anni. Sono venuto qui nel 1980 da studente. Allora mi trattavano molto meglio. La gente affittava la casa a me piuttosto che ad altri italiani. Non c’erano questi problemi. Ora è tutto diverso. Ora ti odiano. Non riesco a vivere così”.
Lei di dove è?
“Palestina. Io sono un cittadino italiano ormai. E quindi soffro meno di tanti altri. Di tanta povera gente che viene rimandata a casa senza pudore. Gente affamata, che soffre. E’ assurdo che succeda tutto questo oggi. Dovrebbero aprire le porte a tutti, specialmente ai più bisognosi. E invece proprio a loro le chiudono”.
Cosa pensa dell’integrazione degli immigrati? E’ vero che alcuni sono
molto restii? Questo complica le cose?
“Ascolta. Io sono venuto in Italia per cercare lavoro. Ma questo non vuol dire che devo andare in Chiesa, devo mangiare la pasta e devo mettere i jeans. Io devo poter vivere come mi pare, con la mia cultura e le mie tradizioni. L’importante è che ci sia rispetto. Reciproco! Nessuno vuole ghettizzarsi, è importante stare insieme, ma questa è un’altra cosa…”
Entra gente. Meglio andare.
Va bene. Grazie mille.
“Di niente!”.
Posso chiederti il nome?
“Lascia stare”.
Intervista a un bangladese
Entriamo in un internet point. C’è un signore sulla cinquantina fuori, da solo. Ci avviciniamo.
Posso farle qualche domanda? Sono un giornalista.
Balbetta qualcosa, parla molto poco l’italiano. Mi spiego meglio, anche gestualmente.
Sto scrivendo un articolo sull’immigrazione. Vorrei sapere cosa pensi dell’Italia.
Apre le braccia e sorride. “Si sta bene. E’ un bel posto, si vive bene”.
E la gente? E’ gentile o un po’ fredda?
“No, è gentile”. Sorride sempre.
Quindi ti trovi bene? Non c’è niente che non ti piace in questo Paese?
“No, mi trovo bene”.
Anche l’integrazione va bene?
Non capisce. Poi indico me e lui intrecciando le mani. Sembra abbia capito. “Non tanto. Non riesco a farmi capire quando parlo. Il problema più grosso secondo me è quello. La lingua. I miei figli la parlano molto meglio. Perché loro la stanno imparando a scuola facendo amicizia con i bambini italiani. Loro vivranno meglio quando cresceranno. Potranno integrarsi di più”. Arriva gente. Mi saluta ed entra.
Le classi ponte
A quanto pare il bangladese ha torto. Questo, per lo meno, è quello che pensa il Parlamento italiano, o comunque la maggioranza di esso.
Il 15 ottobre la Camera ha approvato la mozione della Lega Nord in materia di accesso degli studenti stranieri alla scuola dell%27obbligo. Il testo approvato a Montecitorio impegna il governo a “rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione”.
Noi non ci fidiamo del signore del Bangladesh e abbiamo preferito ascoltare il parere di alcune insegnanti, che con i bambini ci lavorano da anni e che meglio di tutti sanno come sarebbe meglio “inserire” gli studenti stranieri.
Anna, insegnante di seconda elementare, con sette immigrati in classe, due cinesi, due africani, due pakistani, un tunisino, la pensa così: “Pensare di isolare i bambini immigrati è una follia. Si toglie loro l’unica arma che hanno per sentirsi accolti, per sentirsi “italiani”, per imparare l’italiano. Noi ci impegniamo molto per abbattere le discriminazioni, per far sì che tutti si sentano uguali. Cerchiamo di insegnare ai bambini che solo vivendo insieme e aiutandosi l’un l’altro si possono superare le difficoltà. La storia ci insegna che allontanare, respingere, isolare, ha sempre portato alla violenza, allo scontro. La scuola è lo specchio della società. Una scuola che disintegra porterà ad una società sempre più disintegrata”.
L’immagine: particolare di Interdipendenza – Interdependency (Ladakh, India, 2005), per gentile concessione del fotografo Martino Gliozzi. Per ammirare altre opere di questo notevole artista, si può andare su: www.flickr.com/photos/martinogliozzi/.
Simone Jacca
(LM MAGAZINE n. 6, 21 novembre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 35, novembre 2008)
Comments 0