Un mondo straniato: “Il silenzio dei sogni e altri racconti” (inEdition) di Marco Palone
Quindici storie perturbanti, collocate nel territorio al margine tra realtà e metafisica costituiscono Il silenzio dei sogni e altri racconti (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 164, euro 14,00) di Marco Palone, settima uscita della collana di letteratura Nerissima. L’opera è preceduta da una Prefazione del direttore della collana, Rino Tripodi, intitolata Il realismo nero di Marco Palone, che ben coglie gli inquietanti “sobbalzi” narrativi dei testi dello scrittore.
Nel fiume tumultuoso, disordinato, talvolta mediocre, della narrativa contemporanea italiana, un’opera come Il silenzio dei sogni e altri racconti di Marco Palone si staglia nettamente per la propria qualità e la propria originalità. Intanto per la scelta del genere racconto, che, al contrario di quanto si pensa comunemente, richiede una maggiore perizia e abilità rispetto al “fratello maggiore”, il romanzo. Mentre quest’ultimo genere narrativo – di lunga durata, caratterizzato dall’intrecciarsi di più vicende e scenari, dalla presenza di molti personaggi, dall’intreccio talora complesso – consente pause, momenti di debolezza, ritmi irregolari, il racconto deve impostare, sviluppare una storia (con pochi personaggi) e quindi guidare il lettore nel giro di poche pagine a un finale, talvolta “aperto” (ovvero una non-conclusione, o una sospensione, o un punto d’arrivo che consenta un’interpretazione “libera” al lettore) o, addirittura, a una “sorpresa”. Insomma, il racconto – leggibile in pochi minuti, con una sola vicenda, in crescendo – può arrestarsi proprio quando ha raggiunto il culmine narrativo, magari appena toccato il momento di massima tensione, laddove il romanzo, che impegna il fruitore in una lettura che può durare giorni o settimane, deve sciogliere tutti i nodi, pervenire a un epilogo conclusivo, in calando, che sciolga la vicenda svelandone definitivamente i lati oscuri, le ambiguità, i misteri, le oscurità, gli enigmi, gli orizzonti di attesa.
Pertanto Palone – che ama il sottile mistero, le deviazioni, le tortuosità, i risvolti dell’ombra che attorniano la realtà e la quotidianità, solo in apparenza scontata e banale – coi suoi quindici racconti, sceglie la perigliosa strada del racconto: a prima vista più facile perché di breve respiro, in realtà insidioso e a rischio di inefficacia, se non adeguatamente costruito e conchiuso.
Lo scrittore parte talvolta da dati realistici, quotidiani (la conversazione tra un assessore e un vescovo; la routine coniugale; un viaggio in treno; una ragazza che chatta; il lavoro di un intagliatore); altre volte, invece, ci proietta da subito in medias res o all’interno di una dimensione straniata (un ladro e una padrona di casa che si “confrontano”; la tragica violenza di un incidente stradale; un sogno inquietante; l’evidente deformità fisica di un’insegnante; lo choc di svegliarsi ritrovandosi in un corpo diverso); in altri casi ancora, l’avvicinamento al nucleo della vicenda avviene mediante incipit misteriosi, precari, nebbiosi (un negozio di fiori che lega due personaggi; un uomo visto su un treno; una stanza per lo sviluppo di lastre; una “lei” vissuta nella memoria).
Tuttavia, anche nei racconti che si distanziano dalla quotidianità, appaiono accurate descrizioni di dettagli iperrealistici, con l’autore che indugia, si sofferma, sui particolari più “pop” (nel senso attribuito da Andy Warhol a tale termine): «Mentre faccio i piatti la moka protesta schizzando qualche goccia sul fornello, spengo. L’odore del caffè si mescola all’aria che entra dalla finestra della cucina, insieme al rumore delle macchine che passano, al trambusto dei compattatori dell’immondizia che svuotano i cassonetti».
E, quindi, ecco accumularsi oggetti apparentemente senza valore, stoviglie sporche, mense aziendali, fermate d’autobus, ambienti metropolitani, interni comuni: «Giulia, dopo avergli dato la pappa della sera, mette sul girello il bambino; adesso lui gira negli spazi della stanza. Poi lei arriva in tavola con un piatto da portata su cui fumiga un monticello di fettuccine al ragù. Lo poggia sul tavolo, ti mette un piatto davanti e lo riempie di abbondanti forchettate di pasta». Un elenco quasi anonimo di oggetti, come fossero inseriti in un inventario, compare ne La borsa: «Nel nastro era inserito un biglietto: “Per Lory”. Poi tirò fuori un’agenda con una fodera di pelle lucida – dentro c’era una stilografica col pennino d’oro – poi prese un giornale in inglese, dei fogli raccolti in una cartellina di cartone e un pacchetto di sigarette».
In Palone è presente un’attenzione quasi minimalista, alla Carver, rivolta a dialoghi, gerghi, tic e manie della società consumistica, a uomini e donne depersonalizzati, in attesa di una “vita” piena e soddisfacente (che peraltro non potrà mai sopraggiungere), a sogni di perfezione irrealizzabili, a speranze di scioglimento dei propri nodi e traumi esistenziali, sempre disilluse.
Allora la quotidianità comincia a essere circondata e minacciata da atmosfere inquietanti, ipnotiche, che conducono a diramazioni eccentriche, dai contorni fantasmatici e deformanti, indecifrabili, stordenti, che sovvertono la cosiddetta “normalità”: «L’uomo sulla panchina se ne stava spanciato, come un tricheco indolente, aspettava, proprio come il tricheco che aspetta la mareggiata grossa per scivolare in mare. Il mare aveva appena una voce oltre la linea dei lampioni». Inizia, così, un percorso che può guidare a epifanie, spesso, però, tutt’altro che rasserenanti e consolatorie.
Sovente, infatti, Palone ci inoltra in un territorio straziante e crudele (Il ladro, in particolare; i particolari raccapriccianti de L’incidente; la sofferenza infantile ne Le campanule; la schizofrenia in Identità diverse) entro il quale i ruoli tranquillizzanti della consuetudine sono travolti. Come in Antonin Artaud, nessuna pietà è concessa allo spettatore/lettore, nessuna elegia, se non rassicurante, almeno catartica: «Per un attimo l’ho visto volare sullo schermo del parabrezza: con quei suoi arti corti faceva una stella di carne che rotolava sull’asfalto. Poi la sedia a rotelle è caduta in un fosso, dopo aver camminato da sola, vuota. Sono uscito dall’abitacolo e ho guardato il suo corpo deforme sull’asfalto: la testa era schiacciata».
Il finale dei racconti può essere molto doloroso: la sorpresa ci proietta in zone grigie tra realtà e follia, tra caso e necessità, tra vita e morte.
Pur non essendo chiaramente presente, nei racconti compresi ne Il silenzio dei sogni, l’elemento soprannaturale, la narrativa di Palone – similmente a quella del grande Tommaso Landolfi – scivola frequentemente nell’onirico, nel surreale (o in quell’atmosfera che qualcuno definirebbe “fantareale”), in un elemento straniante che pervade la realtà, che a propria volta assume, di conseguenza, un aspetto diverso da quello iniziale, banale e abitudinario: il quotidiano è crudele come un incubo: «Entra e si avvia alla cattedra, senza rispondere al buongiorno, o forse lo fa, ma lo sente solo lei e poi si siede. Con il braccio sinistro apre il registro, poi torna a prendere l’altro braccio, che è rimasto poggiato sulle sue gambe, e lo mette sopra la cattedra. Il braccio destro resterà lì, mentre lei firma, mette gli assenti, legge i compiti. Il suo braccio destro è morto».
In particolare, molto suggestivi – e angoscianti – sono i sogni – per altro tratti da reali protocolli psicanalitici – raccolti nel racconto che dà il titolo al libro: «Decido di farmi il bagno e mi avvicino alla battigia. Mi passa davanti con dei cestoni in mano sempre lei, la donna senza collo. C’è qualcosa che emerge, un corpo nero, lungo. Ha una testa che sembra vagamente quella di un bovino, ma è tutto nero, compresi gli occhi, ha le corna. Emerge e sembra molto grande e sbatte sulla spiaggia, ha un corpo affusolato senza gambe, come quello di una grossa foca, è nero con la coda a ventaglio, tutta sbrindellata. Sono terrorizzato ma sto lì a guardare. Siamo a casa mia e il mostro è al piano terra del nostro palazzo, poi sta salendo: si arrampica sulle scale strisciando col suo corpo. Mia madre non sembra allarmata, io penso a come ucciderlo. L’idea è di attrarlo verso il balcone del salotto e poi farlo cadere giù: si sfracellerebbe giù per la discesa del garage. Stranamente la ringhiera del balcone non c’è. Io sono con le spalle al balcone senza ringhiera, sotto c’è il baratro di tre piani e la discesa del garage».
Ne Lo scambio Palone riprende una tormentosa situazione psicofisica già elaborata da Herbert George Wells in uno dei suoi racconti più famosi e “neri”: Il fu signor Elvesham.
Raramente compaiono squarci di sereno, come in questo brano de Le campanule, racconto che in alcune sue parti richiama alla mente il Picnic ad Hanging Rock di Joan Lindsay, portato sullo schermo da Peter Weir: «La farfalla capitombolava in cielo, tra rami e cespugli; i pezzi d’azzurro del cielo si alternavano al buio, ai ciuffi d’erba e ai rami che scricchiolavano sotto di me. Non riuscivo a fermarmi, perché la pista portava giù, sempre più veloce, tutti i colori si mescolavano, forse sentii anche le voci degli adulti che ridevano e facevano chiasso, ma io ad un certo punto non vedevo più nulla, non sentivo più nulla».
E, comunque, sempre, qua e là, le ombre avanzano, le brume non si diradano, la sensazione di gelo (solo esistenziale?) aumenta…
Se Ernest Hemingway scrisse racconti basati sul solo dialogo, viceversa Palone, ne Il ladro, fa “affrontare/confrontare” due persone per lunghissimi minuti, senza che esse si scambino una parola. Il rapporto che si crea è chiaramente sadomasochistico. Oppure, al contrario, nelle Memorie di una ragazza perbene, scorrono a fiumi le futili frasi sincopate dei messaggi via chat o attraverso cellulare… nell’uno e nell’altro caso si tratta di due facce della stessa medaglia che caratterizza il nostro mondo attuale: silenzio o ridondanza e banalità della parola stanno entrambe, paradossalmente, a rappresentare l’assoluta afasia, la totale impossibilità di stabilire una benché minima relazione umana – per non dire di comunicare sentimenti ed emozioni sincere -, da parte dell’uomo odierno. E, in questo contesto, domina la disperata ricerca di un rapporto, dell’amore (oltre a Memorie di una ragazza perbene, si vedano, su tale tema, seppur con prospettive ed esiti diversi, Sonniloquio, Mi sorrise… e La borsa).
Nessun racconto di Palone termina con una conclusione “facile” o piatta; in particolare non dimenticheremo la crudele suspense di Identità diverse o de La borsa, gli explicit di Albumina o de L’intagliatore. Mentre, ne Lo scambio, tutta la vicenda narrata è un terribile incubo alla cui fine, però, non c’è alcun risveglio, anzi…
Ripetiamo: Palone è “cattivo”. I suoi racconti possono essere letti soffrendo, sapendo che ci lasceranno l’amaro in bocca, dopo averci immerso in strani e inconsueti territori in cui quotidianità e inconscio si sfiorano, si toccano, si compenetrano.
Pertanto, caro lettore, che stai per iniziare Il silenzio dei sogni e altri racconti, non possiamo che augurarti cattiva lettura… e che il risveglio ti sia un po’ grave.
(Rino Tripodi, Il realismo nero di Marco Palone, Prefazione a Il silenzio dei sogni e altri racconti, di Marco Palone, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina del volumetto di Marco Palone.
Rino Tripodi
(LM EXTRA n. 22, 15 dicembre 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 60, dicembre 2010)