Nel saggio “La pretesa del comando” (PaperFirst) Sandra Bonsanti e Stefania Limiti analizzano i tentativi – finora naufragati – di introdurre il presidenzialismo in Italia e stigmatizzano la riforma costituzionale presentata dall’attuale Governo
Il 4 luglio del 1981 – durante una perquisizione all’aeroporto di Roma – i carabinieri scoprirono alcuni documenti nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio Gelli, capo della Loggia P2. Tra le carte figurava anche il Piano di rinascita democratica (che forse fu elaborato da Francesco Cosentino, influente funzionario statale aderente alla massoneria). In questo scritto si auspicava una revisione della Costituzione italiana che consentisse al popolo di eleggere il presidente del Consiglio. In altri testi piduisti – il Memorandum sulla situazione politica italiana e lo Schema R – si proponeva, invece, l’elezione diretta del capo della Stato.
Il progetto eversivo di Licio Gelli
Gelli tentò di instaurare in Italia un nuovo regime politico, fondato sul bipolarismo all’americana tra conservatori e liberal, che avrebbe dovuto ridimensionare i diritti sindacali, le funzioni del Parlamento, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa, la scuola pubblica, ecc. (vedi Piano di rinascita democratica). Il “venerabile maestro” s’ispirò a uno studio, commissionato nel 1975 dalla Commissione trilaterale, che criticava «l’eccesso di democrazia» e richiedeva il «ripristino del prestigio e dell’autorità delle istituzioni del governo centrale» (vedi Michel Crozier, Samuel P. Huntington, Joji Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli).
L’esigenza di una riforma costituzionale che favorisse la “governabilità” fu fatta propria, nei decenni successivi, da Giuliano Amato, Silvio Berlusconi, Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Marco Pannella, Matteo Renzi [vedi Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) – Aldo Giannuli] e anche oggi la voglia di rafforzare il potere esecutivo è fermamente presente in una parte della nostra classe dirigente.
La riforma costituzionale Casellati-Meloni
Lo scorso 23 novembre, infatti, il capo del Governo Giorgia Meloni e il ministro per le Riforme istituzionali e la Semplificazione legislativa Maria Elisabetta Alberti Casellati hanno presentato il disegno di legge n. 935 dal titolo Modifiche costituzionali per l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri. Il ddl prevede anche l’incremento al 55% del numero di seggi per la coalizione che vincerà le elezioni, l’impossibilità di formare nuove maggioranze parlamentari nel corso della legislatura e l’abrogazione della nomina dei senatori a vita.
Un’attenta riflessione sui rischi per la democrazia presenti nelle istanze presidenzialiste è contenuta nel saggio delle giornaliste Sandra Bonsanti e Stefania Limiti La pretesa del comando. Da Gelli alla destra al governo. Presidenzialismo e assalto alla Costituzione (PaperFirst, € 16,00, pp. 180). Nel libro si analizzano i tentativi – finora naufragati – di introdurre in Italia l’elezione diretta del capo dello Stato o del premier.
I primi presidenzialisti e il Golpe bianco
L’Assemblea costituente – nonostante la contrarietà di qualche deputato del Partito d’azione – scartò il presidenzialismo e preferì tutelare «le esigenze di pluralismo della società privilegiando il governo parlamentare». Nel Secondo dopoguerra furono i dirigenti del Movimento sociale italiano a rivendicare maggiori poteri per il capo dello Stato. Un’esigenza analoga emerse anche nei settori moderati della Democrazia cristiana (i «gollisti democristiani»), nonché in Randolfo Pacciardi ed Edgardo Sogno, due ex partigiani anticomunisti.
Il primo fondò nel 1964 l’Unione democratica per la nuova repubblica che – ispirandosi al sistema costituzionale introdotto da Charles De Gaulle in Francia – sosteneva l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Il secondo fu protagonista del fallito Golpe bianco, che nel 1974 intendeva imporre al Belpaese il modello gollista. Gelli – come già detto – tramò invano per rafforzare il potere esecutivo e, anche se nel 1983 fu costituita una Commissione bicamerale, essa si limitò a segnalare «la necessità di interventi sull’ordinamento istituzionale».
I referendum costituzionali del 2006 e del 2016
Tra il 1993 e il 1997 furono istituite due Commissioni parlamentari, che tentarono inutilmente di trovare un’intesa tra i partiti per modificare la Costituzione. Nel 2005 il Governo Berlusconi II riuscì a far approvare – da una maggioranza comunque non qualificata delle due Camere – una revisione costituzionale che prevedeva la trasformazione dell’Italia in uno stato federale e il rafforzamento dei poteri del premier. Le modifiche introdotte dal Parlamento, tuttavia, decaddero, poiché non furono approvate dal referendum del 25 e 26 giugno 2006 (vedi Referendum costituzionale in Italia del 2006).
Il voto popolare bocciò anche i cambiamenti apportati nel 2016 allo Statuto dal Governo Renzi, che rafforzavano il Consiglio dei ministri – attribuendogli le competenze su varie materie d’interesse nazionale (ambiente, beni culturali, energia, infrastrutture, turismo) – e stabilivano la fine del “bicameralismo perfetto” con il conferimento di maggiori poteri alla Camera (vedi Disegno di legge costituzionale).
I conflitti politico-sociali nel mondo globalizzato
Il Governo Meloni ha sostanzialmente riproposto il progetto berlusconiano, coniugando il “premierato forte” con l’autonomia regionale. Bonsanti e Limiti sono contrarie a ogni tipo di presidenzialismo che – a loro avviso – è spesso contrassegnato da «tratti fortemente, drammaticamente autocratici» (come in Russia, Turchia e Ungheria) oppure risulta inadatto a gestire il tessuto sociale del mondo globalizzato, plasmato dalle ferree leggi del neoliberismo.
La società odierna, infatti, è frammentata da forti disuguaglianze economiche e feroci contrapposizioni politiche che la rendono assai disomogenea. I conflitti non possono essere composti da un «uomo solo al comando» che rappresenta un’unica fazione politica e spesso viene scelto da una minoranza di elettori. Sarebbe meglio, pertanto, che a mediare tra le parti in lotta – come sostiene il costituzionalista Massimo Villone – fosse «un sistema parlamentare che stempera i contrasti e li porta a sintesi» (vedi Roberta Jannuzzi, La proposta semipresidenzialista di Giorgia Meloni. Intervista al professor Massimo Villone).
I rischi insiti nel semipresidenzialismo
Il semipresidenzialismo propugnato dalla destra nostrana è conforme ai dettami dei dirigenti della banca JP Morgan, che in un documento del 2013 esortarono gli stati dell’Eurozona a sbarazzarsi delle costituzioni “socialiste” e a rafforzare il potere esecutivo (vedi The Euro area adjustment: about halfway there). L’elezione diretta del premier, pertanto, rappresenta «una formula che non nasce dall’esperienza viva della società, ma da laboratori di pensiero come quelli della Trilateral o della JP Morgan». Essa è funzionale al progetto autoritario della finanza americana che vuole restringere gli spazi democratici e affidare il nostro destino a «qualcuno che decide per noi e lo fa rapidamente, senza possibilità d’interferenza».
Le revisioni costituzionali hanno cercato spesso di stravolgere gli equilibri istituzionali per consentire alla casta dominante di «auto-conservarsi e conservare i propri privilegi». L’attribuzione di maggiori poteri al Governo rispetto al Parlamento, dunque, va contrastata, poiché «non ci rende più liberi, ma meno democratici».
Le immagini: simbolo massonico (foto di MBGX2 concessa a uso gratuito per https://pixabay.com); il palazzo del Quirinale a Roma, residenza del presidente della Repubblica (foto dell’autore).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente 3000, anno XIX, n. 217, gennaio 2024)