Nel saggio/intervista “Perché l’Ucraina” (Ponte alle Grazie) il filosofo statunitense analizza le motivazioni che hanno indotto Putin ad aprire le ostilità e spiega le pericolose implicazioni internazionali dello scontro armato tra Kiev e Mosca
Nel mondo sono in atto ben 59 conflitti militari, il più drammatico dei quali è senza dubbio la Guerra russo-ucraina che – insieme alla pandemia di Covid-19 – sta profondamente mutando il corso della Storia e accelerando la fine della globalizzazione neoliberista (vedi Giovanni De Mauro, Guerre, in www.internazionale.it). Lo scontro armato tra Kiev e Mosca è destinato a durare ancora a lungo e – sulla falsariga dei due precedenti conflitti mondiali – da guerra locale potrebbe anche degenerare in un conflitto tra le grandi potenze nucleari. Uno degli scritti più obiettivi su questa guerra è il saggio Perché l’Ucraina (Ponte alle Grazie, pp. 144, € 12,00) di Noam Chomsky.
Si tratta di una raccolta di sette interviste, rilasciate tra il 2018 e il 2022 dal filosofo statunitense alla giornalista Valentina Nicoli e allo studioso C. J. Polychroniou, nelle quali si chiariscono – come si legge nella Premessa – «le motivazioni storiche, economiche e politiche che hanno portato all’invasione russa». Chomsky affronta vari temi di politica internazionale, tra cui il ruolo della Cina e dell’Unione europea nell’odierno contesto globale, ma in particolare analizza criticamente le scelte strategiche della Russia e degli Stati uniti. Riguardo al conflitto scatenato da Vladimir Putin, il suo giudizio è netto e inequivocabile: «l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra, al pari dell’invasione statunitense dell’Iraq e di quella di Hitler–Stalin della Polonia […]. È sempre opportuno ricercare delle spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti». Egli, tuttavia, ammette che sia difficile capire le vere intenzioni dello “zar” e «ipotizzare cosa hanno in mente di fare lui e la sua cerchia», anche se ritiene probabile che il Cremlino voglia solo impedire al governo di Kiev di entrare nella Nato e non intenda ricostruire un’entità simile all’Unione sovietica. Del resto, se la Russia provasse a conquistare tutta l’Ucraina, rischierebbe una disastrosa guerra di lunga durata e «la sua miserabile esperienza in Afghanistan sembrerà un picnic nel parco al confronto».
L’atteggiamento dei russi nei confronti dell’Occidente è stato amichevole fino al 1998, «allorché erano intenzionati a collaborare con gli Stati uniti per costruire una nuova struttura di sicurezza europea». L’attacco della Nato contro la Serbia, durante la Guerra del Kosovo (1998-99), ha fatto cambiare idea al governo moscovita, come testimonia la contrapposizione politica del Cremlino all’Occidente durante alcuni conflitti del Nuovo Millennio (Iraq, Libia, Siria, ecc.). Nel 2014, con l’occupazione della Crimea e di parte del Donbass, la Russia ha iniziato ad allontanarsi dal resto dell’Europa e il distacco si è acuito dopo l’invasione dell’Ucraina. Le aspre sanzioni applicate dall’Unione europea e dagli Usa obbligheranno adesso Mosca «a una dipendenza ancora maggiore dalla Cina», che da un quarantennio si tiene prudentemente lontana dalle guerre e «intanto osserva i rivali distruggersi tra loro».
Il giudizio di Chomsky è severo anche nei confronti degli Usa, che – a suo avviso – hanno mantenuto nell’ultimo trentennio un «approccio irrazionale» nelle relazioni con la Russia. Nel 1990 gli States, infatti, hanno respinto la proposta di Michail Gorbačëv – allora presidente dell’Urss – che intendeva creare «un sistema di sicurezza eurasiatico da Lisbona a Vladivostok senza blocchi militari». La Casa bianca, inoltre, non ha mai rispettato i patti verbali, stabiliti al momento della riunificazione delle due Germanie, quando il presidente George H. W. Bush e il segretario di stato James Baker avevano assicurato i sovietici che la Nato non avrebbe esteso «la propria giurisdizione verso est nemmeno di un centimetro». L’Alleanza atlantica, invece, ha subito installato alcune basi militari proprio nei territori dell’ex Repubblica democratica tedesca (Rdt). L’espansione verso l’Europa orientale è poi proseguita negli anni seguenti, incorporando nella Nato i seguenti stati: Polonia, Repubblica ceca, Ungheria (1999); Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia (2004); Albania, Croazia (2009); Montenegro (2017); Macedonia del Nord (2020).
Nel 2008 George W. Bush ha chiesto l’adesione alla Nato anche di Georgia e Ucraina, ma la proposta non è andata in porto sia per il veto di Germania e Francia, sia perché il governo russo ha mandato «una serie di avvertimenti sul fatto che quella minaccia militare non sarebbe stata tollerata». Nel settembre 2021 il presidente Joseph Biden ha firmato col governo di Kiev la Dichiarazione congiunta sul partenariato strategico Stati uniti-Ucraina, un documento poco noto, che ha riconosciuto l’Ucraina come “partner avanzato”, cioè alleato, della Nato. L’accordo prevedeva anche la fornitura di «armi anticarro e di altro tipo» e l’avvio di un «intenso programma di addestramento ed esercitazione» di tipo militare, influendo certamente sulla decisione di Putin di aprire le ostilità.
Le conseguenze a lungo termine del conflitto in corso appaiono difficili da prevedere. Chomsky non scarta l’ipotesi di un’escalation che porti a un catastrofico coinvolgimento della Nato, ritenendo però ancora possibile la trattativa con Putin. Magari attraverso un congresso internazionale – sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975 – che sancisca «un’Ucraina neutrale sulla falsariga dell’Austria» e ne definisca un assetto federale «che comprenda un certo grado di autonomia per la regione del Donbass». Sarebbe utile, in tal senso, riprendere il Protocollo di Minsk II, l’accordo stipulato l’11 febbraio 2015 – e sciaguratamente mai rispettato – tra i capi di Stato di Francia, Germania, Russia e Ucraina, che ha cercato di porre fine ai combattimenti nel Donbass (vedi Gli accordi di Minsk, in www.dirittoconsenso.it). Tuttavia, i negoziati di pace tra Putin e Volodymyr Zelens’kyj saranno impossibili finché «gli Stati uniti persisteranno nell’irremovibile rifiuto di parteciparvi», coltivando «la speranza di un cambio di regime» al Cremlino.
Purtroppo la Guerra russo-ucraina ha già prodotti alcuni effetti nefasti. Innanzitutto, quello di «consolidare la cornice atlantista a trazione statunitense per l’Europa ed escludere la possibilità di una “casa comune europea” indipendente», impedendo così la nascita di una “terza forza” autonoma da Cina e Usa. L’Italia, inoltre, è tornata a essere totalmente sottomessa agli States, come testimonia l’invio di armi agli ucraini deciso dal governo Draghi, in dispregio dell’articolo 11 della Costituzione italiana e – per di più – senza alcun dibattito parlamentare! Il Belpaese, pertanto, sta vivendo una preoccupante involuzione autoritaria e sembra essere ormai diventato «il luogo della sperimentazione in Occidente della sostituzione del diritto con l’antidiritto» (Ugo Mattei, Il diritto di essere contro, Piemme, p. 29).
Le guerre dell’età moderna sono state spesso il prodotto della nietzschiana “volontà di potenza” e, soprattutto, dello sviluppo tecnologico che ha spinto le grandi potenze a costruire armi sempre più distruttive. Concordiamo, pertanto, con il giudizio espresso dal sociologo Domenico De Masi, il quale – riprendendo le idee di Umberto Galimberti, Martin Heidegger ed Emanuele Severino – ha scritto in un recente articolo che «non è più l’uomo a dar forma alla tecnica ma è la tecnica che ricrea l’uomo a sua immagine e somiglianza, guidando il mondo in una corsa frenetica […] ormai giunta a un tale vertice di follia che Russia, America, Cina e Nato gareggiano a chi accumula più testate nucleari, pur sapendo che ne bastano solo sessanta per distruggere l’intero pianeta Terra» (Il nostro Occidente e la “sua” guerra, in il Fatto Quotidiano, anno 14, n. 115, 27 aprile 2022, p. 17). L’istinto di sopravvivenza del genere umano – che finora ha evitato lo scoppio di una Terza guerra mondiale – rimane a nostro avviso l’unico vero deterrente contro l’olocausto nucleare. Tuttavia, la hybris e la megalomania che animano i governanti delle potenze atomiche potrebbero indurre – prima o poi – qualcuno di loro a premere il pulsante fatale che scatenerà l’apocalisse (vedi 1962-2022: dopo sessant’anni il mondo è di nuovo sull’orlo di una catastrofe).
(LucidaMente, anno XVII, n. 198, giugno 2022)