Commedia, dramma, paura e poesia per l’ultimo Özpetek, che convince e affascina
Pietro, aspirante attore siciliano, arriva a Roma, ospite di una lontana e stramba cugina, pieno di sogni d’amore e d’arte, con una forte volontà di indipendenza, e approda a un lavoro precario e sottopagato. Fa cornetti a notte fonda in una pasticceria della Capitale. E dalle pareti di una casa vecchia, aristocratica e quantomeno fatiscente nel quartiere di Monteverde, gronda, insieme alla carta da parati lisa e dimenticata, una storia di morte e fratellanza. Fin qui tutto normale per Ferzan Özpetek: il protagonista è un ragazzo gay, timido e fondamentalmente solo, innamorato di un uomo violento e narcisista al quale lui propone inutilmente una visione coerente del mondo. Il fulcro della storia, l’asse principale, non saranno la solitudine e il rapporto tormentato con un mondo e un’Italia intolleranti o privi di diritti civili (nei quali – si afferma nel film – sono morti Hitler, il fascismo, il comunismo e anche, definitivamente, la scuola pubblica), bensì otto personaggi (interpretati da Beppe Fiorello, Margherita Buy, Vittoria Puccini, Claudia Potenza, Cem Yilmaz, Andrea Bosca, Ambrogio Maestri e il piccolo Matteo Salvino), spiriti eternamente incarnati negli abiti di scena di una prima teatrale di oltre sessant’anni prima, che, dall’oltretomba, stabiliranno con lui un rapporto di complicità e comprensione che caratterizzerà tutto il film.
Commedia, dramma e paura per questo Magnifica presenza, che a torto Simona Santoni definisce nel blog di Panorama come «il film più complesso di Ozpetek, non il migliore». Frase che noi ci sentiamo di stravolgere per affermare che esso, nonostante i giochi di ombre e luci, finzione e realtà, possa risultare paradossalmente il film più semplice, comprensibile e dunque migliore del regista turco-italiano (perché la semplicità sta negli occhi di chi guarda). L’ultimo Özpetek va oltre i soliti film. Forse l’opera è un po’ ammassata e raffazzonata in alcune parti, ma solo perché la volontà narrativa del cinema si scontra con l’esigenza cinematografica di durata. Essa, in ultima analisi, mostra di avere qualcosa in più, qualcosa che gli altri film, in fondo, non avevano: l’ironia del sorriso nervoso di Margherita Buy, l’innocenza per niente finta di Germano, che finalmente riesce a farsi piacere, e la voce poderosa, antica, cattiva e antibuonista di Anna Proclemer, che interpreta una vecchia attrice egoista, vittima dell’arte per l’arte, simbolo di un male cosmico: quello degli esseri umani incapaci di sorridere, di capire la vocazione dell’arte verso l’umanità. La cultura è servizio alla collettività e chi non la sostiene uccide l’uomo.
Il film, che si avvale della fotografia di Maurizio Calvesi, della scenografia di Andrea Crisanti e delle musiche di Pasquale Catalano, con brani di Nat King Cole (Perfidia), Patty Pravo (Tutt’al più) e Betty Hutton (I Wish I Didn’t Love You So), cita una Roma felliniana ricca di venature orientali (delle quali l’attore turco Cem Yılmaz costituisce il volto), omaggia il rosso cardinalizio di un set di Nanni Moretti, la letteratura teatrale di De Filippo e Pirandello e fa i complimenti alla televisione italiana, troppo spesso calunniata e che invece è stata in grado, in questi anni, di regalare artisti preparati o perlomeno desiderosi di crescere, come Beppe Fiorello e Vittoria Puccini (lontana anni luce dalla tv d’appendice che l’ha vista protagonista in passato. Una lezione per le varie Capotondi del piccolo schermo).
La solitudine del protagonista, ma anche quella della scombinata cugina Maria (Paola Minaccioni), non è la solita degli sconfitti di Özpetek. È la solitudine di chi sa cosa sogna e cosa vuole costruire, non sa come, non sa dove e con chi, di chi spesso sbaglia in eccesso o in difetto, ma sogna un sogno che è quello dell’amore e della condivisione quotidiana con una persona che sappia trovare nel rispetto e nella prosaicità della routine la poesia assoluta. Questo desiderio si incarna nello spirito di Luca Veroli, una delle otto presenze che “infestano” la casa: il viso di Andrea Bosca, spigoloso e affascinante come una pellicola in bianco e nero, corteggia i sogni del protagonista, emoziona e risulta carnale, rende la pellicola sessualmente appetibile.
Maurizio Coruzzi (conosciuto come Platinette) interpreta un boss malvagio e ringhiante che sorveglia una bolgia di dannati danteschi, uno scantinato popolato da transessuali costrette a forgiare abiti di lustrini, simbolo di una femminilità cercata, di una prostituzione spesso obbligata. Un inferno moderno che la comunità transgender spesso si trova a vivere come per espiare quella diversità alla quale un dio malvagio sembra averla destinata. Gli eroi e gli antieroi sono di fatto interscambiabili e le letture della realtà che offre il regista sono molteplici senza mai essere complesse. Piace o non piace, prendere o lasciare, questo Özpetek finalmente vicino alla sensibilità di chi scrive. Bravo!
Matteo Tuveri
(LucidaMente, anno VII, n. 76, aprile 2012)
Finalmente! Aridatece Tuveri!! Bellissima recensione.