“Scendere dalla vita”: un originale dizionario di Domenico de Maio e di Nicoletta Elli, pubblicato da Laruffa
Fin dal 1927 Cesare Pavese aveva scritto: «Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi? Li trattate da stupidi, da imbecilli, da vili, come se ciascuno di essi non avesse le sue ragioni terribili e immense. […] Ebbene io vi dico che il suicida è un martire, martire tanto degno quanto i martiri di tutte le religioni. E per religione, intendo ogni ardore dell’anima umana, Dio o Idee che sono poi altrettanto Iddii. Se martire è colui che testimonia colle sue sofferenze e il suo sangue la sincerità del suo pensiero e dei suoi sentimenti, fusi, la sincerità della sua anima non più volgare, perché non ha da essere un martire anche un suicida che, piuttosto di mentire (a se stesso e quindi agli altri), di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento diverso che tanto sente inutile e non suo, preferisce uccidersi, darsi quel grande dolore, il supremo di tutti i dolori?».
E Pavese, com’è noto, porrà fine ai suoi giorni in una stanza di albergo di Torino, il 26 agosto 1950.
Una scelta rispettabile – Personalmente condivido che il suicidio sia una scelta da rispettare, addirittura da ammirare quando scaturisce da motivi filosofici, da un razionale rifiuto della noia o della volgarità dei tempi o da un aristocratico disprezzo per una realtà vile e meschina. O, ancora, da un sentimento di protesta per la devastante violenza del mondo. Togliersi la vita era ritenuto dagli antichi Greci e Romani un gesto coraggioso, eroico, e Socrate è tuttora ricordato e ammirato per aver dato una valenza libertaria alla sua assunzione di cicuta. Lo stesso Jean Améry distingueva il Selbstmord (assassinio di se stesso) dalla Freitod, la morte libera, scelta come atto libertario. Insomma, un fatto è che a togliersi la vita sia una persona qualunque, per cause contingenti e banali, un altro che lo facciano, magari lucidamente, gli uomini illustri”, che non dovrebbero avere motivi impellenti e concretamente materiali per abbandonare questa “valle di lacrime”.
Una preziosa raccolta di casi – Anche in Scendere dalla vita. Dizionario di suicidi illustri di Domenico De Maio e Nicoletta Elli (Laruffa, pp. 180, € 19,00), pur tra spiegazioni e diagnosi psicopatologiche, prevale un senso di rispetto nei confronti del gesto estremo compiuto dai grandi spiriti dell’umanità. Lo psichiatra De Maio non è nuovo a pubblicazioni sull’argomento, avendo già dato alle stampe varie opere sul suicidio (ricordiamo fra le altre, in collaborazione con Maria Cristina Bolla, Imitando Didone. La morte volontaria di personaggi della realtà, della letteratura e della mitologia, Angeli, pp. 240, € 18,59). Il Dizionario, scritto con la Elli, esperta in letteratura, elenca ordinatamente, dalla a alla zeta, una serie di celebri personaggi che si sono tolti la vita. Di ogni suicida si indicano data di nascita e di morte, età al momento del decesso, un breve quadro biografico e circostanze e modalità dell’atto estremo. Per esattezza, si tratta in totale di ben 247 casi, le cui fonti vanno dalla mitologia (Aiace) alla Bibbia (Saul, Sansone, Giuda), dalla storia antica (Demostene, Sofonisba, Annibale, Bruto, Cassio, Marco Antonio, Nerone) alla storia contemporanea (Pisacane), dalla biografia (Ludwig II) alla cronaca (Gardini, Edoardo Agnelli).
Chi sono i suicidi – I mestieri che esercitavano i “suicidi illustri” sono tra i più vari: cantanti (Dalida, Tenco, Kurt Cobain), dive (Capucine), artisti (Borromini, Kirchner), personaggi dello spettacolo (Noschese, Margaux Hemingway), uomini politici (Ludwig II, Masaryk). Tuttavia, sembrano prevalere i letterati, il cui elenco è lunghissimo: solo per citarne qualcuno, Salgari, London, Majakovskij, la Woolf, Hemingway, Mishima, Primo Levi. Non è certo un caso che una delle più “belle” narrazioni di suicidio, nella sua straziante, dettagliata, veristica drammaticità si può reperire nell’explicit del Martin Eden di London: «Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui lo seppe, cessò di saperlo». Poi, ci sono i suicidi in coppia, i casi dubbi (Allende, Marilyn Monroe, Calvi, Sindona), l’inconscia ricerca della morte (i metasuicidi di Puškin, Proust, Lawrence d’Arabia, Che Guevara). Un capitolo a parte è costituito dal pantheon nazista – a partire da Hitler ed Eva Braun, per continuare con Goebbels, Himmler, Goering, un vero e proprio “crepuscolo degli dei” – e, sulla sponda opposta, per motivi tragicamente diversi e provocati dai primi – dai perseguitati ebrei sopravvissuti al genocidio. Pure il mondo degli intellettuali austriaci prima del dissolvimento dell’Impero asburgico e, paradossalmente, il contiguo movimento psicanalitico ai suoi albori sembrano colpiti da pulsioni suicide.
Modalità e motivazioni – Come ci si toglie la vita? Prevale la scelta dell’avvelenamento, seguita da quella delle armi da fuoco o da taglio, dell’impiccagione-soffocamento, e così via, fino a modalità artificiose e originali (che il lettore scopra da solo come si tolsero la vita Diogene di Sinope, Potocki o Elemeda). Le motivazioni: talvolta eroiche (Attilio Regolo o Pietro Micca), di protesta morale (Catone l’Uticense, l’editore Formiggini, il monaco buddista Duc, Palach) o filosofiche, più spesso esistenziali, fino a giungere alla vera e propria eutanasia. Né mancano moventi originali, a volte quasi comici: Abimelech si fa uccidere per evitare di morire poco dopo a causa delle ferite infertegli da un sasso scagliato da mano femminile (insopportabile per lui una tale, umiliante dipartita); Agatocle preferisce la morte a un mal di denti; il cuoco Vatel non intende sopravvivere a un proprio pranzo che ritiene non perfettamente riuscito…
Un ironico invito al rinvio – Tuttavia, tanto per evitare l’accusa di indurre chi ci legge a pensare un po’ di farla finita, visti tanti illustri esempi di grandi e famosi personaggi che hanno scelto il suicidio, citiamo le ironiche parole del filosofo siciliano Manlio Sgalambro, che in un suo testo musicato da Franco Battiato (Breve invito a rinviare il suicidio, in L’ombrello e la macchina da cucire, Emi Records), così si rivolge a un non meglio definito interlocutore:
«Va bene, hai ragione
se ti vuoi ammazzare.
Vivere è un’offesa
che desta indignazione…
Ma per ora rimanda…
È solo un breve invito, rinvialo.
Va bene, hai ragione
se ti vuoi sparare.
Un giorno lo farai
con determinazione.
Ma per ora rimanda…
È solo un breve invito, rinvialo.
Questa parvenza di vita
ha reso antiquato il suicidio.
Questa parvenza di vita, signore,
non lo merita…
solo una migliore».
In conclusione, il nostro mondo è tanto schifoso e disprezzabile da non meritare neanche che ci togliamo la vita per esso e le sue nefandezze…
L’immagine: la copertina del volume di Domenico De Maio e Nicoletta Elli.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno II, n. 18, giugno 2007)
Quando parliamo di suicidi, quasi tutte le persone mettono in primo piano il mondo con le sue “schifezze”, o per essere più civili, le sue negatività.
E’ qui lo sbaglio: non è assolutamente il mondo a creare certe situazioni che fanno perdere il controllo specialmente a delle persone che conoscono i veri valori della vita. Ma tutte queste negatività sono date da chi ci circonda, dandoci un “TSO” (trattamento sociale obbligatorio) o un “TFO” (trattamento familiare obbligatorio). Potrei dire di più ma adesso mi fermo qui.
Saluti da Fabio.
Gentilissimo Fabio,
grazie per averci scritto.
Io avrei una soluzione mediana: le leggi di natura non sono proprio benevole; in più l’essere umano ci mette del suo per renderle ancora più spietate.
Ci riscriva quando vuole.