“Un momento dopo il nostro ospite […] entrò tutto trionfante e ci annunciò che grazie alla flagellazione e alle preghiere della sera prima i terremoti erano completamente cessati. Questo è un fatto certo. Chi può cerchi di spiegarlo. […] Al momento di lasciare la Calabria cominciavamo a sentirci legati, malgrado tutto quello che avevamo sofferto, a questi uomini così curiosi da studiare nella loro rudezza primitiva e a questa terra così pittoresca da osservare nei suoi sconvolgimenti eterni”.
(da Viaggio in Calabria, Prefazione di Agazio Trombetta, Collana Scrittori di Calabria, Ilisso Rubbettino).
Alexandre Dumas
LA RILETTURA
Alexandre Dumas. Naturale, quasi automatico, per molti, tanti, associare al suo nome I tre moschiettieri o Il conte di Montecristo. Dalla lettura di questi romanzi si può capire, tuttavia, che lo scrittore francese, vissuto tra il 1802 e il 1870, oltre a possedere una grande vena creativa che gli permise di raccontare avventure fantastiche, non abbandonò mai il profondo rispetto per la realtà storica. Proprio l’amore per l’avventura e la grande curiosità lo spinsero ben presto a intraprendere audaci e talvolta pericolosi itinerari, che lo portarono in Africa settentrionale, in Italia, in Russia e in Svizzera.
Fu in particolare il Sud della nostra penisola a onorarsi della sua più assidua presenza. Nel 1835 Dumas organizzò, infatti, un lungo viaggio che lo avrebbe condotto in Sicilia e poi in Calabria, da cui trasse ispirazione per il suo Impressions de voyage: le capitaine Arena (1842), che è stato recentemente pubblicato da Ilisso Rubbettino col titolo Viaggio in Calabria (Prefazione di Agazio Trombetta, Collana Scrittori di Calabria, pp. 168, € 5,90).
Nel 1860 la Sicilia e la Calabria lo avrebbero rivisto insieme a Garibaldi, che egli seguì fino a Napoli con i Mille, descrivendone le gesta ne Les garibaldiens (1861).
In riva allo Stretto – La terra di Calabria attira Dumas con un fascino quasi morboso: tutto è mistero, avventura e storia. Da Messina, con un gruppetto di pescatori siciliani, ardimentosi quanto pungenti nella loro atavica rivalità verso i calabresi, attraversa ripetutamente lo Stretto e approda infine a San Giovanni (oggi Villa San Giovanni). Sulla spiaggia del paese lo scrittore avrà modo di osservare affascinato un’acrobatica gara di ballo, la tarantella, che vedrà sfidarsi fino allo stremo il pescatore siciliano Pietro e il giovane calabrese Agnolo. Sarà quest’ultimo a vincere. Un improvvisa scossa di terremoto, poi, porrà termine alla festa. Da qui, Dumas riprende quasi subito il suo viaggio, questa volta a piedi, per raggiungere Scilla. Il percorso di quasi cinque miglia che separa San Giovanni da Scilla lo proietta in una dimensione romantica: la bellezza selvaggia del paesaggio che incontra lo fa entrare in uno stato di grazia poetica. Il suo sguardo e il suo animo si perdono tra il mare cristallino e una campagna che “si sviluppa fra siepi di cactus, di melograni e di aloè, dominati di tanto in tanto da qualche noce o castagno dal fogliame spesso, all’ombra del quale trovavamo più volte seduto un pastorello con il suo cane”. Lo scrittore nota e descrive ogni cosa: dalle giovani calabresi, che trasportano brocche d’acqua e fascine di legna sul capo senza perdere bellezza ed eleganza nelle movenze – e ciò lo porta a paragonarle ad “antiche romane” -, a ogni tipo di piante rigogliose e selvagge, il cui ordine è dettato solo dalla natura e non ancora dalla mano dell’uomo.
Lungo la costa calabra – Lo sguardo di Dumas improvvisamente si allarga sulla bellissima spiaggia di Scilla, delimitata da una lato dalle rocce su cui sono abbarbicate le case e in fondo dal promontorio sul quale sorge l’antica fortezza. E, dopo averla percorsa in lungo e in largo, se ne sente come ipnotizzato. Poi, il suo viaggio continua, percorrendo la costa tirrenica, talvolta in barca, spesso a dorso di mulo. I suo occhi, come tutti i suoi sensi, s’immergono nella realtà di una Calabria aspra e a tratti crudele, ma mai rassegnata. In totale comunione con questa terra, lo scrittore fa sue le credenze e i balli popolari (come la tarantella), i fenomeni naturali (come il terremoto), le storie di conquista e persino il brigantaggio. Comprende quindi i timori della gente che appartiene a un luogo a lungo dominato dagli stranieri e da una natura talvolta devastante, che non ne hanno comunque annientato la leggendaria ospitalità e la voglia di vivere.
Sulle tracce della storia – L’itinerario calabrese di Dumas non è però dettato solo dalla sua fame d’avventura: egli segue, con la mente e con il cuore, anche le imprese del più stimato generale dell’imperatore Napoleone I, Gioacchino Murat, diventato nel 1808 re di Napoli. Cosicché, risalendo la costa, giunge a Pizzo Calabro, in preda a una grande emozione, che si palesa nelle seguenti parole: “Ci sono certe città sconosciute, il cui nome per inattese, terribili, clamorose catastrofi talvolta acquista improvvisa fama europea e che s’ergono in mezzo al secolo come una di quelle paline storiche piantate dalla mano di Dio per l’eternità: tale è il destino di Pizzo”. E’ proprio in questo posto che Murat fu fucilato nel 1815 ed è qui che Dumas, visitando la città, rivive quel drammatico avvenimento storico, descrivendo nei più piccoli particolari lo sbarco, l’arresto da parte dei borbonici e l’esecuzione di colui che egli definisce con ammirazione “quest’altro Aiace”.
Tra terremoti e riti religiosi – Il suo viaggio prosegue poi nell’entroterra e, attraversando vari paesi, egli giunge infine a Cosenza, città che aveva subito i maggiori danni dalle scosse di terremoto che avevano in quei mesi colpito la Calabria (e di cui egli aveva avuto sentore appena giunto a San Giovanni). Qui all’immagine romantica si sostituisce la realtà di una terra messa in ginocchio dai sismi che si susseguono nel tempo. Lo scrittore francese ammira la tenacia degli abitanti nel ricostruire ciò che il terremoto distrugge (dalle singole case a interi paesi rasi al suolo) e condivide con loro il sentimento di perenne precarietà che questa gente prova per la propria vita e per i propri averi. Descrive, inoltre, l’usanza popolare di chiedere protezione a Dio con l’omaggio di un’ulteriore sofferenza fisica: la flagellazione. Anche se questo atto di fede estrema lo induce a manifestare perplessità e ironia, specialmente quando dice: “Un momento dopo il nostro ospite %5B…%5D entrò tutto trionfante e ci annunciò che grazie alla flagellazione e alle preghiere della sera prima i terremoti erano completamente cessati. Questo è un fatto certo. Chi può cerchi di spiegarlo”. Infine, Dumas lascia Cosenza e s’imbarca a San Lucido verso la costa di capo Palinuro, non senza esprimere un sentimento nostalgico, che, nella parte conclusiva del racconto, lo induce ad affermare: “Al momento di lasciare la Calabria cominciavamo a sentirci legati, malgrado tutto quello che avevamo sofferto, a questi uomini così curiosi da studiare nella loro rudezza primitiva e a questa terra così pittoresca da osservare nei suoi sconvolgimenti eterni”.
L’immagine: la copertina del libro.
Mariella Arcudi
(LucidaMente, anno II, n. 20, agosto 2007)