“Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum”: un libro “scomodo” di Francesco Cento
Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum (pp. 124, € 12,00) di Francesco Cento, quarta uscita della collana di letteratura Nerissima delle nostre edizioni, è un libro che mescola ricerca storica, efficacia narrativa, originalità di stile. La storia del Risorgimento e dell’Unità o, meglio, dell’annessione italiana al regno sabaudo, emergono sotto una nuova luce, inquietante e dolorosa. L’opera è preceduta da un’Introduzione del direttore della collana, Rino Tripodi: Speranze, illusioni e delusioni storiche: da Litàlia alla Mèrica a Lamerica. Eccone il testo, per intero, di seguito.
“Non era luogo, quello, dove la poesia fosse mai esistita.
Si pensava.
Data la natura, ognora selvatica, e il genere umano ridotto allo stato brado dall’ignoranza cui era stato costretto sin dalla memoria che di quei luoghi e di quelle terre ne ebbe qualcheduno che si dette pensiero di appuntarne la storia, su libelli pubblicati altrove, in maniera che, qualora vi fosse stato qualcun altro in grado di leggere, avrebbe faticato non poco a trovarli. E se pure quelle terre avessero dato i natali a illustri uomini e valenti matriarche, nessuna notizia di tali menti era rimasta nel popolino minuto […]”.
Questo il memorabile incipit de Litàlia di Francesco Cento, che, con uno stile prezioso e quasi arcaico, complesso, colto, ci immette fin dall’inizio nella realtà, naturale e sociale, della Calabria meridionale intorno agli anni dell’Unità della nostra nazione, realtà che, più che fare da sfondo, è l’autentica protagonista del suo breve romanzo (o racconto lungo, che dir si voglia).
Un piccolo universo violento e meraviglioso, affascinante e sconsolante al tempo stesso, entro il quale i contrasti sono estremi:
“Vita rude, tremenda per i nativi, pittoresca e passionale per gli avventurosi foresti che qui vi trovavano chissà quale antico luogo sotto forma di pietre, sterpi e qualche colonna solitaria ritenuta da sempre uno strumento per stabilire antichi confini terrieri e basta. Di terra e di vacche, di pecore e di muli, non altro. E se poesia poteva esserci si trovava nelle distese sterminate di ulivi, nelle sere d’estate dopo la fienagione, quando la stanchezza dei molti arrivava a un compromesso con la beatitudine dei pochi che si vedevano i granai pieni di grazia di Dio e le ceramedde a paru cantavano come rosignoli e gli uomini e le donne ballavano nella sera incipiente; oppure quando le pariglia di buoi aravano nel primo autunno. Oppure nelle solennità della Pasqua e la fine della quaresima portava felicità di soppressate, magnanimità di formaggi e ricotta, boccòlari e lardo, soffritto e dolci di cannella e cioccolato”.
Una Calabria selvaggia ed estrema
È un microcosmo che non conosce mezze misure.
La natura infierisce senza pietà.
Nella bella stagione:
“In quella mattinata d’agosto del 1860, faceva caldo come se le scintille del sole fossero lì, in mezzo agli alberi di ciliegio ormai esausti dell’abbondante produzione dell’estate che finiva. E i fichi carichi come i muli che portavano il sale in Aspromonte; con le barde che sciancavano di qua e di là rumoreggiando di corde tese e flebili mugolii amorosi”.
Come nella brutta:
“Pioveva a dirotto e le strade erano peggio delle fiumare, e le fiumare peggio di centomila tori infuriati, tanto rumore facevano di acqua, legname, ciucci morti annegati e sballottati di sponda in sponda che parevano pettini a quattro zinne. […] La grande quantità d’acqua, poco trattenuta nelle zone disboscate a pascolo o a seminativo, ricopriva di un mare di melma mulattiere e sentieri: allontanarsi dalle vie conosciute del paese poteva rappresentare un rischio di vita. La coltre di fango si stendeva dappertutto, come la glassa sui dolci dei morti, e cancellava le comunicazioni tra paese e paese mortificando gli abitanti dell’uno e dell’altro”.
Sempre incombente è l’incubo della malaria:
“Terre trasformate in mare di fango e putridume d’inverno e in arse costiere e fetide chiazze d’acqua delle fiumare, d’estate, dove la malaria stava di casa e si faceva chiamare per nome e cognome e ingiuria da tutti, e se da tutti era fuggita, pure questa si presentava non invitata nelle case di quelli che non potevano, o non facevano in tempo a finire il lavoro prima che il sole di luglio potesse ammorbare l’aria e appiccicare la febbre anche allo Spirito Santo”.
Persino il cibo appare eccessivo, sovrabbondante e saporito come in una sorta di Paese della Cuccagna:
“Sacrificanti abbuffate domenicali dove chili di maccarruni con ragù di carne sobbollito sette ore e composto di carne di vitella di latte – rarissima quanto prelibata -, polpette all’uovo, formaggio pecorino e mollica di biscotto, tordi e beccacce e un pezzettino di carne di maiale. Cappone cotto con tutti i sacramenti; o coniglio o capretto sopra i carboni ardenti. E quando già erano a metà mangiata – a spaccapanza – che la cintola l’avevano allentata da mezz’ora sotto il grande tovagliolo posto sotto il triplo mento del loro faccione; oppure le bretelle erano arrivate sotto le spalle e i bottoni della camicia sembravano dovessero saltare da un momento all’altro andando a offendere il naso o l’occhio di chi stava di fronte. Il vino lo bevevano a cannàte da mezzo litro, rosso o nero come la pece, dal gusto sopraffino ma potente nell’immobilizzare alla sedia perfino un toro”.
Litàlia è, pertanto, anche un prezioso documento su usi e costumi (civili, sociali, antropologici, gastronomici, ecc.) di una parte del Mezzogiorno d’Italia, usi e costumi molti dei quali vivissimi ancor oggi.
Il raffinatissimo stile di Francesco Cento
Per descrivere e narrare, Cento impiega uno stile particolare, nel quale la voce del narratore esterno, assumendo spesso un punto di vista interno mobile, talvolta di qualche personaggio, ma più sovente dei poveracci, dei ca-funi, come egli stesso li definisce con un gioco di parole, diventa coro di un intero, martoriato popolo.
Lo scrittore usa varie modalità stilistiche, quali il discorso libero indiretto, il lessico dialettale, le espressioni proverbiali o colorite, e talvolta, come nell’incipit che abbiamo visto, un andamento arcaico che descrive le imperscrutabili vibrazioni del tempo e dei luoghi, degli uomini e della natura.
Proprio tale varietà stilistica consente alla scrittura di Cento di essere bagnata dalla grazia della vivacità, dell’efficacia, sia nelle sequenze narrative che in quelle riflessive, sia in quelle descrittive che in quelle dialogiche.
Prevale il gusto dell’ironia, ai limiti del comico, come nel descrivere i paesani che si radunano:
“E così come gli animali avevano raggiunto ai tempi di Noè, da ogni dove, l’arca del Patriarca, allo stesso modo una mandra di animali bipedi umani si mosse dalle campagne, dalle case, dai palazzi dericenesi avvicinandosi, nella maniera più diversa e insolita, al Piano di San Basilio, luogo dell’incontro”.
Si potrebbe far riferimento al Verga de I Malavoglia, ma oseremmo dire che Cento, pur tenendo conto della lezione del catanese e di altri grandi narratori del Mezzogiorno, riesce a costruire una lingua letteraria tutta sua, dai molteplici spessori, un ritmo interno al testo, con un’anima stilistica particolare ed efficacissima.
Un filone importante della letteratura italiana
La problematica centrale dell’opera, però, non è costituita dalla dettagliata descrizione, attraverso una preziosa e ricercata espressione letteraria, di un mondo arcaico e “primitivo”, bensì dall’irruzione della Storia, violenta e devastante, nelle piccole storie dei piccoli uomini, all’interno del panorama immobile e arcano di una società arretrata senza proprie specifiche colpe, di un mondo marginale ed emarginato; e dalle speranze di cambiamento che si rivelano illusioni, quindi delusioni.
La delusione è quella risorgimentale e postrisorgimentale, e si tratta di una tematica talmente importante, anzi centrale nella storia del nostro Paese, che un ricco e nobile filone della narrativa meridionale si è concentrato su essa. Una “corrente” che va dalla novella Libertà di Verga ai romanzi-saggio di Sciascia, da I vecchi e i giovani di Pirandello a Consolo, da Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ad alcune opere meno note di Bufalino e Camilleri.
Stavolta, però, al centro delle vicende c’è soprattutto la Calabria, in particolar modo la piccola, “immaginaria”, comunità di Dericina (Radicena-Taurianova). Ecco i suoi cittadini che attendono l’arrivo di Garibaldi come una sorta di palingenesi. L’autore descrive con cura comportamenti, aspettative, timori, dei vari strati sociali.
Le speranze (utopistiche?) deluse
Il sogno di giustizia sociale, le umiliazioni secolari, fanno immaginare un Garibaldi riparatore dei torti, difensore degli oppressi:
“Poi sarebbe toccato ai galantuomini, a quelli che avevano approfittato della situazione di tanti e tanti anni e che si erano arricchiti rosicando, tomolata dopo tomolata, la terra del demanio […].
“Voi avete preso possesso di terra del demanio senza averne diritto”.
“Ma io non…”.
“Zitto,” l’avrebbe redarguito Garibaldi “questa è la voce del popolo!”.
“A noi risulta che avete preso di forza la terra libera che per regio decreto apparteneva alla comunità: contrada Chiusa, contrada Tallarico, contrada Savarazzo, contrada Bellè, contrada Limina. Da oggi in poi tutte queste terre saranno nuovamente a disposizione dei reietti”.
E così, galantuomo dopo galantuomo, la povera gente avrebbe potuto riprendere a usufruire delle terre”.
Ma, col sopraggiungere della disillusione, l’evento appare simile a uno scenario, finto, fittizio, truccato,
“come una dagherrotipia sempre più nitida, d’una enorme minchioneria: una diavoleria acconzata che stava sopra la carta come pittata ma che pittata non era. Coi soldati attorno e i generali con la testa ficcata nei ferri, per stare immobile e zitto appresso al fotografo che, per scattare quella posa si nasconde dietro una coperta nera e sta lì, nascosto, fino a quando non dice ora basta, ché tutti riprendono fiato e sorridono augurandosi in cuor loro che l’immagine sia venuta senza infingimenti da ritoccare con la matita. Così era il conte piemontese che scattava la fotografia, l’unico che avesse la possibilità di vedere tutti gli altri e di dirigerli come pupi: “Tutti fermi! Tu un po’ più in su! Tu un po’ più in giù”. […] L’ineluttabile cammino della Storia che nessun esercito ben armato e numeroso come quello che stava aspettando Garibaldi più a nord, poteva fermare”.
Alla fine, la delusione è inevitabile:
“Tutta la felicità che l’aveva preso nello scrivere la grida di quella mattina, il fervore per la libertà tanto attesa, la gioia di un sogno che si stava realizzando, la fine dei patimenti personali, sembravano come quei tempi quando gli ulivi si caricano di fiori preannunciando un’annata favolosa e poi invece si allupano cadendo e gli alberi si ritrovano spogli, senza un còccio di frutto: vuote rimangono le giare e, prima ancora, i trappeti. […]
Ma c’era una vera differenza tra un regno borbonico e un regno sabaudo? Nel più recondito dei suoi pensieri si era risposto che no, non vi era nessuna differenza”.
Il “nodo” storico del Mezzogiorno
L’autore, così, proietta inquietanti interrogativi, supportati da una attenta e colta ricerca storiografica – si veda la biblioteca o, meglio, “catalogo bibliografico” di don Vincenzo – e da una umanissima sensibilità verso le disgrazie dei ca-funi.
La Storia appare così, secondo una felice metafora di Cento, come una “mano armata del destino” nei confronti degli individui singoli e della povera gente.
Continui sono i riferimenti agli avvenimenti storici di fine XVIII-prima metà XIX secolo, da Napoleone alle fallite rivoluzioni liberali.
Ma non solo. Vengono enumerate le molteplici invasioni subite dal Mezzogiorno d’Italia:
“Voci e luci dei guerrieri Goti, biondi e chiari di occhi, dai richiami gutturali e strambi; le teste brune dei Saraceni, ingordi di bottino e di donne; le corazze dei cavalieri Normanni, distruttori, prima ancora che signori di quelle terre; i rapaci angiuini; gli orgogliosi Spagnoli, affamatori terribili e mai dimenticati. Quali soldati potevano attentare alla vita in Dericina?”.
Foschi presagi – indizi sinistri e bizzarri, quasi barocchi – sembrano accompagnare la nascita del nuovo stato, come all’ingresso di Vittorio Emanuele II a Napoli:
“Il malaugurio gli si era prospettato fin dalla mattinata quando le cataratte del cielo si aprirono e gettarono acqua coi tini della vendemmia sopra tutta Napoli. Tutte le magnifiche decorazioni, gli archi trionfali, le statue di carta e gesso che erano stati approntati lungo la strada percorsa dal corteo regale, si erano trasformati in lugubri stendardi di morte tanto l’acqua gettata coi bacili divini dalle nubi, scure di lutto, aveva tempestato gli stucchi, ammollato la carta incollata, devastato le cornucopie di tela gessata, portato lontano i festoni di frutta dipinta; il vento ululava atterrendo tutti tranne quella faccia tosta del re che, tanto per sfidare San Gennaro, volle arrivare lo stesso in Duomo”.
La brutalità di Bixio e dell’esercito sabaudo, i crimini dell’assedio di Gaeta – peraltro narrato anche nei suoi lati assurdi e grotteschi – e della lotta al cosiddetto “brigantaggio”, sono denunciati a più riprese in modo crudo e spietato.
Si osservi la tremenda sequenza delle “foto dei briganti”:
“E una volta uccisi li fotografavano pure, a imperituro ricordo del loro eroismo e quale veritiero dettaglio di questa favola. Quando il brigante morto stava immobile, com’era mestiere di morto fare, e invece il tristo bersagliere si muoveva spesso facendo imbestialire il maestro fotografo. Non c’era verso che stesse fermo, col tempo di posa infinito. Il soldato non ne voleva sapere di stare come il morto. Il fotografo, se avesse potuto, l’avrebbe ucciso con le sue stesse mani per quanto tempo gli stava facendo perdere di luce buona, così sarebbe stato fermo come la sua vittima ora che quello faceva Golia e l’altro Davide. Come fu e come non fu, col tempo perso il sole si era spostato e sul volto del brigante, in fotografia, era comparso un sorrisetto equivoco, di sfida. La smorfia non piacque al soldato, né al suo superiore. Il fotografo, bestemmiando in maniera oscena e brandendo un obiettivo come fosse una clava, dovette rifare le foto, col morto sempre più immobile e il soldato sempre più in orgasmo. Non ci fu verso. Mandò tutti al diavolo e tolse il sorrisetto ritoccando la lastra”.
Verso la Mèrica, anzi Lamerica
Sicché l’ultima pagina del libro, La visiera alzata, col puntuale riferimento ai tragici avvenimenti da cui sono tratte alcune vicende narrate nell’opera, è una evidente sollecitazione verso un rinnovato studio del periodo storico e soprattutto in direzione di un superamento degli stereotipi e delle menzogne ancora imperanti sull’evento risorgimentale e sull’Unità sabauda.
Ed è significativo che la vicenda si concluda con un’altra speranza, un altro miraggio che per molti si trasformerà in un’ennesima delusione: l’imbarco verso gli Stati Uniti, la Mèrica di tanti immigrati. (E forse non è casuale che sia stato un altro calabrese, il regista catanzarese Gianni Amelio, a narrare l’ennesima violenza dell’emigrazione, stavolta subita dal popolo albanese, con l’illusoria Lamerica – questo il titolo, come si ricorderà, del film prodotto nel 1994 – identificata stavolta proprio con la nostra penisola).
Anche se, nel capitoletto intitolato Post scriptum, Cento fa recuperare a uno dei nipoti dei personaggi emigrati negli Usa un legame ancestrale con la terra dei propri avi… Un legame ancestrale…
(Rino Tripodi, Speranze, illusioni e delusioni storiche: da Litàlia alla Mèrica a Lamerica, Introduzione a Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum di Francesco Cento, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: I Beati Paoli (terracotta, 1992, Genova, collezione privata) dello stesso Francesco Cento. Sito internet dell’artista: www.francescocento.it.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno III, n. 30, giugno 2008)