Una vicenda surreale, ai confini tra presente e passato: un assaggio del prossimo romanzo (“Charleston dell’apatia”) del narratore umbro
LucidaMente ha già fatto conoscere ai propri lettori Sergio Sozi, scrittore umbro residente in Slovenia, recensendo la sua raccolta di racconti Diorama (leggi qui).
Ora torna a proporlo con due estratti da un suo romanzo ancora inedito, Charleston dell’apatia. Lo scrittore conferma anche in questa nuova opera la sua fantasia sfrenata, un po’ folle e visionaria, quasi clownesca, espressa in un linguaggio e in uno stile brillanti e del tutto originali, soprattutto rispetto alla piattezza e alla banalità dell’attuale narrativa.
Ovviamente, anche la vicenda narrata è surreale quanto vivace. Il protagonista-voce narrante è uno scrittore con tratti delinquenziali (è un ladro). Nel corso delle sue peripezie, mai oltre il palazzo nel quale è confinato, finirà pure per imbattersi in un centinaio di transfughi provenienti addirittura dal mondo comunista degli Anni Trenta-Quaranta dello scorso secolo. Così il passato “sovietico” e un indefinito tempo-luogo presente ucronico si mescolano. Ma quanto è da attribuire alla realtà e quanto al probabile delirio affabulatorio, forse onirico, del protagonista?
Non riveliamo nient’altro e, per gentile concessione dell’autore, anticipiamo solo l’incipit dell’opera e la spiegazione fornita da Sirena, detta Rena, che è a capo del manipolo di fuggitivi.
Mi dissi: facciamo un bilancio. Sono uno scrittore plebeo che campa miseramente, in completa solitudine, dentro un casermone in cemento e mattoni gialli, un mostro quasi fatiscente o quanto meno dalla stabilità per niente certificata (ventuno piani, io sto al terzo), perciò è evidente che non ho scelta, devo per forza allargare le mie conoscenze, cercando così di evadere dal limite angusto dei trentasei metri quadrati del mio appartamento (che poi non è neanche il mio, sto a pigione). E siccome qui, oltre le mura di un appartamento, iniziano solo il vuoto o le mura degli altri appartamenti, in cui vivono altre persone, è sottinteso che si tratterà di entrare in casa loro.
Quando mi dissi le cose che ho appena riferito fedelmente, era una sera tardi di tre mesi fa e io stavo nella mia minuscola cucina, unta di oli e grassi misti e dalle piastrelle bianche spaccate, dove sedevo davanti a una caraffa di vino piena a metà e dopo una lunga giornata di apatia invernale mi sentivo stracco e senza fantasia, muto, svigorito. La radio a valvole Geloso immalinconiva poggiata sullo stesso tavolo, spenta come sempre di notte, siccome a cena e anche nel dopocena voci e suoni mi disturbano, e nel medesimo luogo, privo di tovaglia, potevo contemplare il piatto con i resti di tre salsicce di maiale, cioè niente perché con la fame che ho spazzolo i piatti a perfezione, io: neanche i torsoli come Pinocchio, lascio. E non ho nemmeno l’abitudine di parlare da solo nella testa, eppure in quel frangente pensai proprio questo, lo voglio precisare meglio a costo di ripetermi: È proprio ora di allargare le conoscenze.
Da quando sono ufficialmente residente nel condominio (vi giunsi l’estate di quattro anni fa, attratto dall’affitto molto basso), lavoro in casa sul computer; non ho una donna, cioè ce l’avevo ma poi mi ha lasciato; il quartiere, benché sia uno dei più piccoli della città, mi è estraneo quanto Ulan-Bator (ancora chiedo in giro del tabaccaio e ignoro dove sia la fermata del bus per il centro). E quei tre cani di amici, proprio tre e proprio cani perché dal momento in cui mi sono trasferito qui non si sono quasi più fatti sentire, sono individui esacerbati e asociali da cui è meglio stare alla larga. Non li nomino neanche, ecco!
[…]
Salve, il mio nome è Sirena Postrič, ma tutti mi chiamano Rena, che in qualche lingua credo possa risultare un nomignolo un po’ buffo e rozzo. Sono nata nel 1965 nella cittadina di Ruska Klet, che in lingua slovena significa Cantina Russa. La nostra città, di circa cinquantaduemila abitanti, sorge in una boscosa, impervia e desolata regione interna, situata all’incrocio fra diverse Nazioni che furono insieme nel Patto di Varsavia. I cittadini sono in gran parte di lingua slovena ma con minoranze serbe, russe, romene, bulgare e perfino francesi e italiane.
Quando venne fondata, nel 1946, per volere dell’U.R.S.S. e grazie all’entusiastica adesione, al lavoro pratico e al contributo economico delle autorità della Repubblica Federale di Y., Ruska Klet avrebbe dovuto rappresentare la praksis di certi ideali di nuova convivenza e qualificazione umana. Per questo, oltre alla maggioranza costituita dagli sloveni, vennero spontaneamente a contribuire alla sua edificazione anche delle spedizioni di volontari provenienti da Serbia, Bosnia, Russia, Romania, Bulgaria, Francia e Italia.
Per la realizzazione dell’ambizioso progetto urbanistico fu scelta un’area lontana dalla civiltà e in qualità di primi abitanti vennero selezionati solo dei coloni molto giovani, proprio al fine di dimostrare al mondo intero la possibilità reale di inaugurare una nuova e migliore umanità, che fosse scevra delle colpe della guerra, appena terminata con i suoi milioni di vittime civili e militari e le spaventose atrocità belliche, eugenetiche e antisemite.
In principio l’idea funzionò. Fabbriche, circoli artistico-letterari e scuole collettivistiche portarono la cittadina a fiorire, in una elevatissima qualità della vita. Ma ben presto la Repubblica Federale di Y. ruppe, non senza una forte polemica politica, le proprie relazioni con l’Unione Sovietica, quindi Ruska Klet fu oscurata e cadde nel dimenticatoio. La città venne dichiarata A.N.U.S. (Area di Nessuna Utilità per il Socialismo) e così, nel giro di pochi mesi, fu chiusa entro un’alta recinzione elettrificata: un anello invalicabile che la isolava dal mondo.
Le immagini: a uso gratuito da Pexels (autori: cottonbro studio; Yusuf Çelik; Vika Glitter).
Emilio Lonardo
(LucidaMente, anno XIX, n. 217, gennaio 2024)