Ad inizio 2008 gli stranieri in Italia erano quattro milioni, ovvero il 6,7% della popolazione. Diversi fattori dimostrano la volontà degli immigrati di mettere radici nel nostro paese: aumentano quelli che desiderano acquisire il permesso di soggiorno per lungoresidenti, aumentano gli imprenditori immigrati e aumentano gli investimenti per acquistare una casa. Nonostante questo, l’Italia è al primo posto in Europa occidentale per i compensi fuori busta. Sono decine gli immigrati giunti in Italia dal Bangladesh che, per lavorare, sono stati costretti a fare richiesta di asilo politico. Ma nessuna autorità competente li ha informati su cosa significasse chiedere ad uno Stato l’asilo politico, non gli hanno spiegato i presupposti su cui si basa il rilascio.
Il caso del Bangladesh
Convinti di presentarsi davanti all’autorità preposta alla valutazione del caso e di ricevere l’immediato permesso di soggiorno, alla domanda “Perché chiedi asilo politico?” hanno risposto ingenuamente e in tutta onestà: “Mi serve il permesso di soggiorno per poter lavorare”. Nessuno gli aveva detto che il diritto di asilo viene concesso a chi non può rientrare nel proprio paese per timore di ritorsioni concrete o per situazioni di evidente difficoltà.
Ovviamente tutte le richieste sono state rigettate: “In questo modo – spiega l’avvocato Vincenzo Patera che segue il caso – centinaia di persone torneranno in mezzo ad una strada e saranno sfruttate per colpa di qualcuno che non è più in grado di affrontare il problema”.
Tali esseri umani, come tanti altri, hanno bisogno del permesso di soggiorno per lavorare. Sono padri, mogli, fratelli e figli che non tornano nei loro paesi da cinque o dieci anni perché se escono non possono più rientrare.
Il lavoro nero, una tappa obbligata
Nel nostro paese l’esistenza di un extracomunitario è legata al permesso di soggiorno, il quale necessita di un posto di lavoro fisso per essere emesso. L’iter impiega mesi e mesi a concludersi. Nel frattempo bisogna sopravvivere e il lavoro nero sembra essere l’unica soluzione: “Non hanno alternativa – spiega Roberto Morgantini dell’ufficio stranieri Cgil – Le attuali leggi italiane li obbligano a lavorare in nero, in attesa di una regolarizzazione che impiega più di un anno a pervenire”.
E’ il caso di un ragazzo circa trentenne, che chiameremo Bader, giunto in Italia ad aprile 2008 per ricongiungimento familiare: solo a gennaio 2009 sarà convocato per la presa delle impronte e dopo altri tre o quattro mesi avrà il permesso di soggiorno. Ma, per un’assurda contraddizione, a Bader, nel frattempo, non viene riconosciuto un lavoro regolare proprio perché non possiede il permesso di soggiorno. “Il problema è a monte – prosegue Morgantini – devono cambiare le leggi perché questa situazione si risolva. C’è troppa burocrazia, così si incoraggia lo sfruttamento e c’è sempre chi ne approfitta”.
Ci sono situazioni in cui il datore di lavoro non si fa scrupoli a considerare il lavoro immigrato come manodopera usa e getta: un immigrato viene reclutato per lavorare in nero in un cantiere edile, viene regolarmente pagato i primi mesi, poi le retribuzioni si fanno occasionali finché scompaiono del tutto. Ma il lavoratore continua a presentarsi al cantiere, fiducioso che il suo operato venga riconosciuto, senza sapere che il datore troverà il modo di denunciarlo e farlo così espellere dal paese, senza dovergli corrispondere il denaro del lavoro svolto.
Le iniziative della Cgil a tutela dei lavoratori immigrati sfruttati
Per abusi del genere la Cgil ha iniziato un’attività di “recupero crediti”: se lo straniero, dopo essere rientrato in Italia, si rivolge a loro indicando il datore insolvente e con testimoni dell’accaduto, si è in grado di contattare l’azienda per recuperare il denaro spettante. “Il problema – come spiega Nadia Tolomelli della Fillea (federazione italiana lavoratori legno, edili e affini) – è che spesso i lavoratori irregolari non sanno nemmeno per chi lavorano. Forse hanno un numero di cellulare e forse sanno che il loro capo si chiama “Mario o Gigi”. Spesso è necessario che ritornino sul posto di lavoro per leggere almeno un cartello”.
Una buona parte del settore edilizio funziona per subappalti, nei quali sono ancora presenti i cosiddetti caporali che portano ogni giorno al cantiere otto o dieci lavoratori stranieri e li pagano secondo le proprie regole. C’è da dire che, nonostante questi percepiscano regolarmente dall’azienda mandante del lavoro il denaro spettante, ai lavoratori stranieri arriva quel che decide il caporale, senza nessuna regola fissa o calcolo delle ore lavorative. In qualche modo viene a crearsi una situazione per cui di fatto un uomo assume il potere discrezionale di decidere se un altro uomo può mangiare domani o se deve aspettare una settimana.
L’Europa contro il lavoro sommerso
Secondo il Parlamento Europeo l’origine del problema deriva da una mancata inclusione sociale attiva, ovvero la mancata attuazione di quei diritti fondamentali che permettono alla gente di vivere dignitosamente. La necessità è quella di garantire un livello minimo di sussistenza a tutti, così da non mettere le persone in condizione di accettare un qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione pur di avere un’entrata.
Durante il dibattito sull’inclusione sociale svoltosi a ottobre 2008 il Parlamento invita gli stati membri ad alleggerire la pressione fiscale ed elaborare un pacchetto di misure di supporto, il quale comprenda agevolazioni sull’alloggio, un sostegno all’istruzione e alla riqualificazione professionale. È importante dare maggiore sostegno alle organizzazioni imprenditoriali e sindacali sotto forma di forti incentivi per chi si impegna a trasformare il lavoro sommerso in economia formale e sanzioni severe per chi continua ad utilizzare manodopera irregolare.
Prostrarsi per sopravvivere
Giacomo Barbieri è il vicepresidente dell’associazione nazionale “Oltre le Frontiere”, la quale si occupa dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati in Italia, assistendoli su abitazione, casa e servizi. Se si parte dal presupposto che una persona non autosufficiente può essere gestita come meglio conviene, si arriva alla facile conclusione che per lo Stato e per la società un lavoratore irregolare non esiste, non ha tutele e diritti, per non parlare della mancanza di riferimenti su cui far affidamento.
“Usando la minaccia costante del licenziamento – osserva Barbieri -, se non addirittura della denuncia e conseguente espulsione, il datore tiene sotto scacco il lavoratore che quindi si sente quasi in obbligo a fare il suo lavoro. In questo modo – conclude il vicepresidente – si innesca un meccanismo che lede la dignità della persona, che lo costringe a prostrarsi e lo fa diventare succube, fisicamente e soprattutto psicologicamente, proprio perchè non ci sono leggi che lo tutelino”.
L’immagine: particolare di Asfalto 2 – Asphalt 2 (Leh-Manali road, Ladakh, India, 2005), per gentile concessione del fotografo Martino Gliozzi. Per ammirare altre opere di questo notevole artista, si può andare su: www.flickr.com/photos/martinogliozzi/.
Jessica Ingrami
(LM MAGAZINE n. 6, 21 novembre 2008, supplemento a LucidaMente, anno III, n. 35, novembre 2008)