Intervista a Quirino Quisi e Rossella Semplici, che ci parlano del loro libro “Il lavoro. Tra identità personale e società” (Paoline) e dei fattori e delle dinamiche che rendono un lavoratore soddisfatto o meno
Il lavoro è un elemento centrale nella vita dell’uomo, sia inteso come singolo individuo sia inserito in una comunità. La definizione stessa di comunità non può prescindere dal lavoro e dalla suddivisione dei compiti per un utile condiviso. Ne indagano il ruolo psicosociale Quirino Quisi e Rossella Semplici nel libro Il lavoro. Tra identità personale e società (Edizioni Paoline, pp. 130, € 15,00). Abbiamo posto loro qualche domanda.
«Il motivo principale che ci ha indotto a scrivere un libro sul lavoro è l’influenza sia positiva sia negativa che tale attività esercita ininterrottamente dalla Preistoria a oggi in un ambito vastissimo, che comprende la vita della singola persona, delle famiglie, delle comunità, delle organizzazioni lavorative, delle istituzioni, degli Stati e, in tempo di globalizzazione, dell’umanità intera. Il potere del lavoro si fonda, quindi, sulla continuità temporale e sull’onnipresenza, ma anche sull’assenza; i momenti di crisi come quello attuale sono segnati dalla sofferenza di coloro che sono disoccupati, sottoccupati o sfruttati. Il lavoro certamente continuerà a cambiare nel tempo, come è stato dagli albori della vita umana fino a oggi, ma ciò non deve costituire un impedimento per continuare a considerarlo fondamentale nell’appagamento del bisogno di sicurezza, del desiderio di affermazione umana e professionale, di partecipazione al bene comune, di ricerca e di attuazione del senso della vita».
Nel V capitolo delineate l’identikit del lavoratore 4.0, ossia del lavoratore che svolge l’attività nel tempo della rivoluzione industriale digitale. Quali sono le sue caratteristiche essenziali? «Per trovare e mantenere il lavoro sono determinanti sia le qualità umane sia una fertile professionalità. Le qualità umane più ricercate da chi si occupa di selezione del personale sono: – Essere curioso. La parola deriva dal latino curiosus, che significa “che si cura di qualcosa” e, nell’accezione positiva, indica essere “desideroso di conoscere, di sapere”. Quindi si auspica che il lavoratore sia intimamente motivato a custodire e accrescere il proprio sapere e persegua l’obiettivo di un aggiornamento permanente. – Essere creativo ad ampio spettro, quindi avere la capacità di elaborare nuove idee, di riorganizzare le proprie esperienze e conoscenze e di trovare nuove risposte a situazioni usuali. – Essere tenace, ossia costante, e restare nelle situazioni, anche quando sono estremamente difficili. – Essere organizzato, quindi saper procedere nel lavoro con ordine, precisione, pazienza e attenzione.– Amare il proprio lavoro, perché ciò stimola il lavoratore a impegnarsi con la totalità dell’essere, a considerare le difficoltà e gli ostacoli come sfide e non come giganteschi macigni inamovibili, a provare piacere nello svolgimento dell’attività».
E riguardo la “professionalità fertile”? «Per quanto riguarda la professionalità fertile, si possono delineare due aspetti complementari: – Uno è legato alla sua dimensione composita: un nucleo essenziale di solide conoscenze che nel tempo si amplia e si aggiorna; la capacità di armonizzare conoscenze e competenze; avere consapevolezza dei propri limiti pur riconoscendosi competenti; essere ponderatamente sicuri; – L’altro è la fruttuosità, di cui beneficiano il professionista e le persone con cui si relaziona, altri lavoratori, utenti, clienti eccetera. La fruttuosità è radicata nella soddisfazione che si vive svolgendo il proprio lavoro, nella produzione di beni e servizi di qualità; perciò le parole, i gesti, gli oggetti si sostanziano di materialità e spiritualità e contagiano positivamente le persone.Nell’eccellente professionista convivono il lavoratore molto competente e la persona con ampio spessore umano».
Che cosa significa oggi quella condizione definita nel vostro libro “mal di lavoro”?«Il “mal di lavoro” è una condizione determinata dalla mancata armonizzazione tra i bisogni personali e i bisogni aziendali, l’impossibilità di cambiare posto di lavoro e la conseguente accettazione della situazione. Esso è una condizione conosciuta fin dall’antichità e ha coinvolto una moltitudine di persone soprattutto in periodi storici particolari, come durante l’industrializzazione o i tempi segnati da crisi. Nel passato più prossimo e ancora oggi, un tentativo di lenire tale sofferenza è rappresentato dalla scelta compensatoria, ossia cercare di recuperare senso, dignità e realizzazione nel tempo libero, dedicandosi alle attività preferite e gratificanti».
Ci potete fare degli esempi di scelta compensatoria? «Uno strumento compensatorio è la riduzione del monte ore lavorativo, ossia il part-time. Quando tale richiesta sottende una fuga dal lavoro, il risultato non è quello preventivato, ossia una vita appagante, ma si ripropone, anche se con intensità diversa rispetto al tempo pieno lavorativo, l’annegamento nel non-senso, nell’inutilità, nella noia e nella solitudine. Invece, nei casi in cui la riduzione del tempo-lavoro viene chiesta per esigenze familiari, per poter svolgere altre attività lavorative o socialmente utili, la persona si riappropria della preziosità del tempo vissuto nella scelta del “fare” per sé e per gli altri.Un’ulteriore strada compensatoria è la richiesta di una maggiore remunerazione; in ogni caso deve avere come base di partenza la giusta retribuzione. Da questa situazione si possono sviluppare molteplici contesti che si snodano lungo un continuum i cui poli sono costituiti dall’efficacia e dall’inutilità dell’incentivo monetario. L’influenza dell’aumento dello stipendio sulla capacità di resistere in una situazione difficile dipende da altre variabili, alcune intrapersonali, altre socioeconomiche».
Quali?«Le prime sono riconducibili alle aspirazioni e alle prospettive future della persona, alla sua concezione della vita, alla scala di valori, alla provenienza socioculturale, al livello di salute psicofisico. Le variabili socioeconomiche riguardano la situazione familiare della persona, ad esempio quanto incide la sua entrata economica sul bilancio, che cosa rappresenterebbe il venire meno del suo stipendio; la possibilità di trovare una nuova occupazione in tempi brevi; l’impatto sulla propria immagine sociale dello status di disoccupato; l’interruzione delle relazioni lavorative e il rischio di isolamento sociale; la perdita dei benefici secondari, quali ad esempio l’accesso privilegiato a certi servizi per sé e per la famiglia, la partecipazione a congressi, a corsi di aggiornamento prestigiosi. In base alle teorie sui bisogni e da ricerche effettuate, emerge che questo tipo di compensazione non è efficace per tutte le persone e, comunque, per coloro che l’accettano, se il disagio è profondo, gli incentivi economici esauriscono la loro funzione in tempi abbastanza rapidi».
Accanto ai fenomeni negativi, quali mobbing, burnout, stress lavoro correlato, date spazio anche alle condizioni che favoriscono il “buon lavoro”, quello a favore della persona che apporta miglioramenti anche a livello sociale. Quali le principali? «Fare carriera, lo status interno e il teamwork. Fare carriera non è possibile in tutte le situazioni lavorative e per tutti i lavoratori. Dove è previsto, è sicuramente un forte incentivo a restare nell’organizzazione, a svolgere al meglio la propria attività e a mantenere un buon livello relazionale. Il lavoratore è consapevole che il progredire della carriera è uno sviluppo per fasi, che talvolta sono definite dalla stessa organizzazione, altre volte seguono canali meno strutturati. Nel primo caso il lavoratore è in grado di valutare se il proprio percorso lavorativo è adeguato all’iter previsto, se è necessario apportare correttivi e se i risultati parziali sono un avvicinamento all’obiettivo.Lo status interno è un riconoscimento ufficiale della struttura; può essere un’onorificenza, un trattamento differenziale anche di tipo economico. È la risultante di una valutazione complessa, che riguarda le capacità acquisite, la dedizione al lavoro e la lealtà manifestate in un arco temporale ampio. Lo status ha una doppia valenza positiva: per il lavoratore che lo riceve, in quanto si vede riconosciuto l’impegno profuso, e per i lavoratori che ambiscono raggiungere quell’obiettivo, perché hanno un valido modello di riferimento».
E il “teamwork”?«Per quanto riguarda il teamwork l’aspetto essenziale è saper lavorare in gruppo, in modo che ognuno possa svolgere al meglio la propria attività, grazie alla collaborazione degli altri membri. Non è facile, perché le spinte di protagonismo e di arrivismo possono intralciare il fluire dell’attività. Sono necessari molti requisiti che ciascuno riconosce a se stesso e a tutti i componenti del gruppo: la professionalità, l’affidabilità, la lealtà, il contributo per conseguire il migliore esito possibile, la soddisfazione di appartenere alla squadra, il coinvolgimento cognitivo, emotivo e affettivo nel lavoro svolto, l’apporto alla creazione e al mantenimento dell’immagine positiva del gruppo e dell’attività che si svolge. Bisogna tenere presente l’influenza esercitata sul teamwork da aspetti personalissimi, quali il desiderio di realizzare anche le proprie aspirazioni e i propri obiettivi e il grado di confidenza sulla vita extralavorativa auspicato e chiesto dai componenti del gruppo. Chi ha la responsabilità di formare gruppi di lavoro deve considerare gli aspetti legati alla professione, alle caratteristiche di personalità, ai desiderata dei candidati e valutare se risultano sintonici con le altre persone del teamwork, con gli obiettivi del lavoro assegnato e con le finalità della struttura».
In conclusione?«In sintesi, lo sguardo deve essere posato sulla singola persona, sul gruppo e sull’organizzazione nel suo insieme, pertanto il lavoro di gruppo presuppone una fitta rete di interscambi su vari livelli. Un teamwork completamente nuovo o con l’inserimento di neofiti necessita di tempo per armonizzare differenti ruoli e personalità; è la fase caratterizzata dallo studio reciproco e dalla valutazione personale dell’essere e del lavorare nel gruppo. Un momento essenziale per il funzionamento del gruppo è la verifica, ossia un’analisi attenta che tenga conto del risultato raggiunto, della strategia utilizzata, dell’apporto dei singoli e di come ciascuno ha vissuto l’esperienza. Non è facile ammettere le difficoltà incontrate riferibili a mancanze, disattenzioni proprie o altrui. È indispensabile essere certi che ciò che si afferma durante gli incontri di verifica non sia utilizzato contro se stessi o i componenti del gruppo; bisogna prevedere la possibilità di fare rilievi anche ai superiori; in ogni comunicazione deve essere sempre rispettata la dignità della persona».
Quale il ruolo delle testimonianze, che costituiscono il VII capitolo?«I vissuti di lavoratori che hanno svolto la loro attività in ambiti differenti negli ultimi cinquant’anni permettono di enucleare analogie e difformità nel rapporto persona-lavoro. Nonostante i profondi cambiamenti verificatisi nel mondo del lavoro, permane l’esigenza di avere un lavoro e di essere riconosciuti e rispettati come esseri umani e come lavoratori. I loro vissuti devono essere un costante richiamo per tutti a impegnarsi per risanare il disastro umano, istituzionale ed economico causato dalla disoccupazione, dallo sfruttamento, dall’asservimento del lavoratore ai vantaggi unilaterali e all’interesse economico. Ci aiutano a mantenere la speranza di poter svolgere il lavoro desiderato con amore e in condizioni favorevoli allo sviluppo ciascuno delle proprie inclinazioni e della propria umanità. È questa la via per assicurare che il tempo e l’attività di ogni lavoratore siano un tempo e un’attività generativi e rigenerativi per la società e per l’umanità».
Ludovica Merletti
(Lucidamente, anno XIII, n. 146, febbraio 2018)