La sola via per uscire dalla crisi: la “Prefazione” di Antonio Landolfi al libro di Luigi Rocca (Pietro Lacaita Editore)
Quale risposta costruttiva e propositiva si può dare all’attuale crisi economica, politica, sociale, ma anche morale, che sta sconvolgendo il pianeta e travolgendo i valori-guida e le “sicurezze” del mondo occidentale? Come coniugare la solidarietà e la giustizia sociale – ormai gravemente messe a repentaglio dalle difficoltà del welfare state –, con i diritti individuali, civili, liberali? Probabilmente i diritti sociali e quelli della persona si accompagnano e si sostengono l’un l’altro. A un calo degli uni, corrisponde automaticamente, purtroppo, l’indebolimento anche degli altri. Dopo il fallimento assoluto dei regimi del “comunismo reale” e con il sistema capitalista e liberista selvaggio che mostra “globalmente” tutte le proprie brutture, ogni persona avveduta non può che ripensare a un pensiero politico che coniughi le istanze di libertà – compresa anche quella economica – a quelle collegate alle sicurezze e alle salvaguardie sociali.
Questo vale sopratutto in un paese come l’Italia ove, ai pericoli della mancanza di protezione sociale delle fasce più deboli, si accompagna non solo una singolare spietatezza dell’apparato economico, inquinato anche dalle mafie, ma anche tre gravissime “anomalie” quali il potere massmediologico berlusconiano, il populismo “ignorante” e violento della Lega Nord e l’ingerenza oscurantista del Vaticano e delle gerarchie ecclesiastiche.
Del resto, cosa ci si poteva aspettare da una nazione che, dopo la caduta del fascismo, ha conosciuto due “Chiese” – quella bianca democristiana, quella rossa comunista – che non hanno certo consentito agli italiani di crescere sul piano civile e della libertà di pensiero. Altra gravissima anomalia – caso unico in Europa –, un Partito socialista prima minoritario e, dopo “Tangentopoli”, fatto quasi “sparire”, con le conseguenze di un Parlamento disastroso, ove non solo non è rappresentata l’idea socialista, ma, addirittura, non è presente alcun partito “storico”, bensì coalizioni “di plastica”, nessuna con più di qualche anno di vita, senza retroterra e tutte basate su slogan rozzi e su volgari figure di capipopolo demagogici.
Pertanto, crediamo sia assolutamente salutare ripensare a idee politiche maggiormente lungimiranti, rispettose dell’uomo e con lo sguardo rivolto a un mondo migliore, più giusto, più libero, più luminoso, come fa Luigi Rocca nel suo volume L’attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli (Piero Lacaita Editore, pp. 224, euro 15,00), dedicato al pensatore romano (1899-1937) ucciso insieme al fratello Nello dai fascisti, ma, soprattutto, alle sue straordinarie elaborazioni ideali. Del libro ospitiamo la chiara ed esaustiva Prefazione di Antonio Landolfi.
Gli antecedenti storici del “liberalsocialismo”, o “socialismo liberale” che dir si voglia (ai nostri tempi considerati pressoché sinonimi, anche se sul piano teorico sono state riscontrate divergenze tra le due espressioni), si fanno risalire all’incirca alla seconda metà dell’Ottocento ed alla figura ed all’opera del pensatore inglese John Stuart Mill.
Fu infatti questi ad operare la più incisiva analisi critica del limite costituito dal liberalismo tradizionale, muovendosi però sempre da una posizione coerentemente liberale. Una posizione puramente conservatrice rischiava infatti, a suo giudizio, di annullare la coerenza con i suoi stessi presupposti.
Per Stuart Mill la sfera dei diritti di libertà realizzata grazie al pensiero e all’azione politica liberale non poteva considerarsi completa e soddisfacente, se non si ampliava a quei diritti politici, elettorali, civili e sociali rispondenti alle esigenze di ceti e di realtà che non venivano rappresentate e realizzate dalla classe dirigente. Il liberalismo, per lui, non avrebbe dispiegato mai pienamente i suoi effetti se non accogliendo in sé queste istanze che una posizione conservatrice tendeva a negare, ed in parte consistente rappresentate dalle istanze socialiste che si andavano affermando: la richiesta di ampliamento del diritto di voto, il riconoscimento dei diritti di uguaglianza dei sessi, la libertà di associazione, un’equa distribuzione della ricchezza prodotta, ivi compresa la proposta di un’economia solidaristica, cooperativa e partecipativa aperta ai lavoratori, un’istruzione diffusa rivolta all’emancipazione delle classi più deboli.
A questo proposito, Stuart Mill non fece mancare il proprio impegno politico, con la creazione insieme a Giuseppe Garibaldi – socialista deluso dall’esperienza della Prima Internazionale di Marx – della Lega per la libertà, la pace e gli Stati Uniti di Europa, che raccolse intellettuali e politici liberali e socialisti di ogni parte di Europa.
Con il trascorrere del tempo il pensiero liberalsocialista andò accompagnandosi alla verifica revisionista del marxismo, soprattutto nell’epoca a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Nella quale si può già marcare una differenza tra pensiero socialista liberale e pensiero liberalsocialista. Il primo è connotato dalla radice originaria socialista, o addirittura marxista, da cui si muove la revisione ideologica che conduce ad accogliere nell’ambito del pensiero originario le istanze profonde del liberalismo, amalgamandole con l’iniziale impianto concettuale di natura socialista. Per il secondo, sull’impianto originario liberale s’inseriscono istanze di carattere socialista. La differenza semantica marca cioè una diversità di percorso nell’elaborazione concettuale. Ma il risultato è pressoché identico.
Un ruolo decisivo per lo sviluppo del liberalsocialismo fu quello svolto dai fabiani, che per primi avvertivano il rischio di un collettivismo statalistico, e proponevano, per eliminarlo, che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione fosse gestita da cooperative di produttori agricoli, mentre i servizi dovevano andare in gestione ai municipi. I fabiani programmarono anche interessanti forme di democrazia industriale, che anticipavano quelle che in tempi successivi divennero i progetti di autogestione e di partecipazione dei lavoratori alla direzione ed alla proprietà delle imprese. Quel che però restava prioritario nel loro pensiero era la concezione che la responsabilità sociale delle istituzioni risultava indispensabile per riequilibrare le disuguaglianze sociali, e per realizzare un’equa distribuzione della ricchezza, con un sistema globale di sicurezza sociale.
La cultura fabiana rappresentò in tal modo la premessa per la costituzione del sistema dello Stato sociale, come prodotto dell’incontro storico tra pensiero socialista riformista e la scuola del liberalismo sociale, mostrando soprattutto la compatibilità dell’economia di mercato con la scelta dell’utilitarismo marginalista propugnata da Jevons, e la progettazione di un sistema sociale avanzato ed organico, nel quale le istituzioni democratiche, dalle autorità pubbliche centrali a quelle periferiche, erano chiamate a svolgere un ruolo essenziale.
I fabiani contrapposero all’utopismo rivoluzionario marxista l’utopia di una rivoluzione “by Act of Parliament”. L’esperienza fabiana creò quel clima di vigoroso revisionismo di cui si nutrì la vigorosa opera teorica e politica di Eduard Bernstein, il quale, nel corso del suo esilio in Gran Bretagna, aveva frequentato intimamente il vecchio Engels, che già si era orientato a riconoscere l’importanza delle istituzioni democratiche liberali, ed aveva avuto modo di frequentare i circoli fabiani ed approfondire il lavoro teorico che in essi veniva svolto. Bernstein, divenuto anche l’erede della proprietà letteraria di Marx ed Engels, sviluppò l’iniziativa revisionistica in senso socialista liberale, e si adoperò per diffonderla negli ambienti della socialdemocrazia tedesca, che era considerata a ragione la più autorevole tra le forze socialiste nel mondo. Già nel 1899 Karl Kautsky, riconosciuto come la guida teorica del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), aveva intuito che «nel socialismo democratico esistevano due indirizzi che si differenziavano per il metodo nella ricerca teorica, ma a volte anche nella tattica della pratica». Due anni dopo, il praghese Tom Masaryk, primo presidente della Cecoslovacchia e che può essere annoverato a buon diritto tra gli antesignani del liberalsocialismo (e il cui figlio Jan sarà assassinato dai comunisti cechi nel 1948, quando era ministro degli Esteri della Repubblica cecoslovacca), annunciava senza remore la crisi del marxismo.
Per Bernstein non apparve sufficiente la distinzione che ormai da più parti si avanzava nelle file del socialismo internazionale tra gradualismo riformistico e rivoluzionarismo utopistico e volontaristico. Egli vide anche il pericolo che tale distinzione alla lunga avrebbe nuociuto al socialismo riformistico, perché lo avrebbe relegato in una posizione sterile, meccanicistica ed iperrealistica, sostanzialmente trasformistica: priva di ogni spiritualità, ed incapace di astrazione. E questo avrebbe favorito quelle posizioni giacobine, rivoluzionaristiche, che assumevano impostazioni utopistiche ed addirittura messianiche, critiche di un riformismo “senz’anima” e in grado di affascinare le masse, sia pure ingannandole.
Perciò Bernstein operò un salto di qualità di eccezionale importanza. Egli partì, certo, dalla presa di coscienza della crisi del marxismo, di cui dimostrò l’inadeguatezza dell’analisi economica e sociale. Ma andò ben oltre. Pose le premesse per superare la teoria della lotta di classe, come quella dell’inevitabilità della guerra, per auspicare l’evoluzione della socialdemocrazia da partito di classe a partito di popolo, e per assumere le posizioni ispirate all’etica kantiana della giustizia come “imperativo categorico dello spirito umano” e dell’universalità della pace.
In tal modo Bernstein offriva alla socialdemocrazia l’occasione per recuperare quelle motivazioni spirituali ed utopistiche che la dogmatica del materialismo dialettico e del materialismo storico avevano finito per inaridire. Una posizione, la sua, che lo condusse ad assumere una posizione critica nei confronti della Spd, tanto sul piano della politica economica e sociale, in quanto rifiutava il concetto di “pace sociale” che a suo giudizio indeboliva il concetto di “giustizia sociale” e appariva un’acquiescenza al bisogno di ordine dell’autoritarismo prussiano, quanto sul piano internazionale, perché in coerenza con l’etica kantiana egli assunse nel 1914 una posizione pacifista ad oltranza, che lo portò a votare contro la guerra in Parlamento. Il marxismo limitò per un decennio l’influenza del pensiero di Bernstein sul movimento socialista, che intanto subiva le scissioni e la lotta che contro di esso conducevano i leninisti che si erano raccolti nell’Internazionale comunista.
Alla fine degli Anni Venti, la crisi economica internazionale rilanciava il tema della giustizia sociale e della necessità di interventi correttivi del capitalismo; l’espansione dell’area del totalitarismo dall’Italia alla Germania, oltre che all’Unione Sovietica, costringeva il movimento socialista a prendere consapevolezza della fondamentale esigenza di difesa della libertà e delle istituzioni democratiche; infine, l’approssimarsi degli eventi bellici, nella seconda metà degli anni Trenta, riportò in primo piano le ragioni del pacifismo, come opposizione alla guerra ed al totalitarismo, cancellando brutalmente le illusioni della Pace di Versailles.
Tutte queste condizioni offrirono un terreno per l’espansione dell’influenza del pensiero bernsteniano nei partiti dell’Internazionale operaia socialista, la cui maggioranza si orientò in senso favorevole al revisionismo bernsteniano, che offriva tra l’altro motivazioni più incisive da contrapporre alle deliranti accuse di “socialfascismo” e di tradimento, portate contro la socialdemocrazia dal Comintern.
Soprattutto il diffondersi nell’area socialista – specie nel Nord dell’Europa ed in Gran Bretagna – delle idee di Bernstein di tolleranza, di giustizia sociale, di difesa della libertà, di superamento del materialismo filosofico e storico del marxismo, rappresentò un’apertura sempre più ampia a quelle correnti di pensiero liberale non conservatore, che, pur non provenendo dall’esperienza socialista, trovavano punti di contatto sempre più intensi con questa nuova fisionomia che la socialdemocrazia andava assumendo, grazie alla metabolizzazione delle idee di Bernstein.
In questo clima rinnovato, in molti paesi correnti e personalità liberali progressiste (come correnti cristiane ed anche cattoliche avanzate) si avvicinarono o confluirono nei partiti socialdemocratici, creando in esse una sintesi felice tra socialismo e liberalismo. E operarono insieme per la costruzione di quelle fondamenta dello Stato sociale, che andrà a compimento subito dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale.
Emblematica resterà la figura di Lord Beveridge, come quella di Bertrand Russell, o anche dello stesso Karl Popper, che non fecero mai mistero della loro scelta politica, pur ovviamente non essendo uomini di partito, né intellettuali di “accompagnamento”, ma offrendo un contributo essenziale allo sviluppo delle idee liberali e socialiste. Oppure, negli Usa, degli intellettuali impegnati nel New Deal roosveltiano, che sostanzialmente rappresentò la versione statunitense della congiunzione tra socialismo e liberalismo.
La positività dell’intervento pubblico nell’economia per correggere gli effetti negativi degli eccessi di liberismo messi in evidenza nella crisi economica cominciata nel 1929, fu dimostrata dal New Deal e dalle proposte dell’economia keynesiana, del tutto compatibile con l’economia di mercato. Si trattava, almeno per quel periodo, di proposte molto più positive rispetto alle politiche iperliberistiche che erano state praticate con effetti disastrosi. I sistemi di “economia mista” che andavano nascendo un po’ dappertutto costituivano il punto d’incontro tra le due forme di politica economica, per lungo tempo considerate antitetiche.
In questo quadro emerge una componente nuova, che più propriamente si avvicina anche semanticamente al concetto di “liberalsocialismo”, in quanto è promossa da personalità che provengono dal mondo liberale e non da quello socialista, e che quindi non sono state partecipi di quel moto revisionistico interno alla cultura del socialismo, che aveva trovato il suo massimo epigono in Bernstein.
Tra queste personalità spicca quella di Carlo Rosselli, che nella sua opera, Socialismo liberale, traccia le linee di fondo di una scelta decisiva tra il socialismo materialistico e deterministico (in cui includeva forse ingiustamente lo stesso riformismo italiano), foriero di tentazioni statalistiche ed autoritarie, responsabile della crisi della democrazia in Italia ed in altre nazioni europee, ed un socialismo impregnato di etica kantiana, aperto ad una visione anche spirituale della lotta politica e quindi escatologico, con finalità rivolte al perseguimento della giustizia in ogni campo della vita della comunità, e con la libertà ritenuta inscindibile dalla giustizia.
Un socialismo che accetta il libero mercato come fattore di sviluppo, ma che vede nello strumento dell’intervento pubblico un fattore di crescita e di lotta alle disuguaglianze sociali (Rosselli era stato uno dei primi convinti sostenitori delle idee di Keynes) e sostenitore di un’organizzazione dello Stato fortemente fondato sulle autonomie locali (un’idea ereditata dal socialismo fabiano).
Carlo Rosselli diede vita al movimento di Giustizia e Libertà in piena autonomia rispetto al movimento socialista italiano e internazionale, anche perché le sue idee furono accolte in modo a dir poco ingeneroso (soprattutto per incomprensione) da molti. Con il suo pensiero e con la sua azione, conclusasi con la spietata esecuzione insieme con il fratello Nello da parte dei “cagoulards” francesi su mandato del governo fascista, Carlo Rosselli si staglia come uno dei grandi protagonisti della sinistra italiana ed europea del ventesimo secolo.
Con lui nasce quel “socialismo liberale” che può essere considerato come la “rivoluzione antieconomicistica” del socialismo, cioè una riscoperta delle sue radici culturali ed etiche appannate dal materialismo deterministico. Un’autentica “riforma protestante” liberatrice dal dogmatismo marxista, imperante sia nella tragica versione leninista e poi stalinista, sia dall’interpretazione della stessa socialdemocrazia tradizionale, che era ormai anch’essa tutta da rinnovare dopo la crisi della prima guerra mondiale.
Rosselli fu accusato di volontarismo per la sua duplice contrapposizione sia al tatticismo del “tanto peggio, tanto meglio” che portava i partiti del Comintern a una neutralità che era un sostanziale favoreggiamento del nazifascismo; ed allo stucchevole pacifismo nei confronti del pericolo hitleriano e mussoliniano dell’Internazionale operaia e socialista, che obbligava le democrazie al disarmo imbelle nei confronti della minaccia della guerra, concretizzatasi con il conflitto in Spagna. Macchiato o meno di volontarismo, l’intervento antifascista nella penisola iberica fu un successo della filosofia politica di Rosselli, anche se si concluse con una sconfitta repubblicana. E l’autore di Socialismo liberale smentì sul piano della lotta ad oltranza per la libertà la vulgata secondo la quale il tipo di azione per la giustizia e per la libertà da lui propugnato fosse una progressiva capitolazione agli interessi della borghesia capitalistica e reazionaria. Come sostenevano i rivoluzionari ed estremisti, od anche qualche riformista.
La stoffa di cui erano fatti i Rosselli era dello stesso tessuto ideale di quella di Giacomo Matteotti, o di un Piero Gobetti. Con il loro sacrificio mostrarono che non si può essere autentici socialisti se l’impegno per la giustizia sociale non si accompagna ad un’intransigente difesa della libertà, anche con l’uso, quando inevitabile, delle armi, e con lo sprezzo della morte. Ed è da loro dunque che proviene l’insegnamento per cui non si può essere socialisti se non si è liberali, e non si può essere liberali se non si è anche socialisti.
È sul piano teorico e pratico insieme che Rosselli pone con forza il tema della sintesi del socialismo e del liberalismo: una sintesi che si rintraccia con evidenza nell’esperienza del Risorgimento, nel corso del quale le correnti democratiche, laiche, liberali e socialiste si ricongiunsero nell’obiettivo comune dell’unità nazionale, così come agli inizi del secolo ventunesimo si ricongiungono nell’unità europea come traguardo federalista. Perché il socialismo altro non è che il compimento alto della rivoluzione liberale.
Tutto il cammino compiuto da Rosselli nella sua elaborazione intellettuale procedette di pari passo con le sue esperienze di lotta politica ed umane. Un cammino che è il tracciato stesso di quel ricongiungimento, già avviato nel secolo diciannovesimo tra i valori del liberalismo classico ed i principi che ispiravano la propaganda e l’azione del movimento socialista: vale a dire quello che già s’iniziava a denominare come liberalsocialismo.
Luigi Rocca coglie perfettamente tutte le ragioni dell’ingresso sulla scena della sinistra italiana ed europea di questa radicale novità rappresentata da un movimento destinato a mutare la fisionomia del socialismo ed insieme ad offrire un futuro ad un liberalismo ormai anchilosato dalle sue sopravvivenze conservatrici, quando non addirittura reazionarie.
Dall’opera di Rocca risulta evidente che il socialismo liberale ha radici antiche e che Rosselli, e Calogero, seppero fondere una visione modernizzatrice che proietta, oggi più che mai, questo movimento verso il futuro. E ciò lungo un arco temporale che va dall’Ottocento all’era della globalizzazione.
Se agli inizi il pensiero liberalsocialista poté apparire antagonistico nei confronti dello stesso pensiero socialdemocratico, oltre che ovviamente nei confronti di quello del socialismo massimalistico e del comunismo (cui lo assimilava esclusivamente un analogo piglio volontaristico), col passare del tempo e con il volgere degli eventi tali differenze andarono attenuandosi, ed oggigiorno appaiono pressoché cancellate.
Un avvicinamento fu dovuto – a ben guardare – già al tempo del primo conflitto mondiale. Lo spirito dell’interventismo democratico che animò Rosselli si avvicinava non soltanto alla tradizione mazziniana e soprattutto garibaldina ben presente nelle origini del socialismo italiano, ma presentò punti di indubbia convergenza con le posizioni assunte dalle socialdemocrazie europee che, vincolate come erano ai processi di nazionalizzazione delle masse, finirono per emarginare le pulsioni pacifistiche e le proposte rivoluzionarie non soltanto bolsceviche, ma anche quelle emerse nelle conferenze di Zimmerwald e di Kienthal.
Due fondamentali affinità emersero tra liberalsocialismo e socialismo riformista nei decenni successivi, che diradarono le diffidenze che si registrano alla rilettura dei giudizi critici espressi su Socialismo liberale all’atto della sua pubblicazione non soltanto da parte di Togliatti (il che era ovvio) ma anche di riformisti come Saragat.
Queste affinità che divennero decisive riguardavano in primo luogo l’adesione ai valori dello Stato liberale ed alla dimensione universale della democrazia da parte delle socialdemocrazie prima e durante il secondo conflitto mondiale, quando si dimostrò evidente l’imprescindibilità di tali valori nella lotta contro il totalitarismo nazifascista.
Essi trovarono successivamente la loro sacralizzazione nel congresso di Francoforte del 1951, in cui si ricostituì l’Internazionale socialista, nel quale si riaffermarono i principi antitotalitari ed il legame indissolubile tra democrazia e socialismo anche contro il totalitarismo comunista e l’espansionismo imperiale sovietico.
Il secondo grande punto di riferimento è stato (e si è consolidato) il percorso di impegno economico e sociale rappresentato dall’insorgere dello Stato Sociale e del sistema dell’economia mista, ben presente sia nell’opera rosselliana – fortemente ispirata dal pensiero keynesiano – e dalle esperienze dei paesi scandinavi, e che si espansero nell’opera di ricostruzione dell’Europa, a partire dal “piano Beveridge” che segnò la confluenza tra socialismo riformista e liberalismo progressista nella comune risposta sia all’ideologia collettivista della statizzazione dell’economia, sia al liberismo sfrenato ed irresponsabile delle classi dirigenti conservatrici.
Su questi due pilastri si è formato, infatti, quel modello di cultura socialista che accoglie in sé, in una grande sinergia storica, sia il riformismo socialista, sia la corrente liberalsocialista.
Si può dire che oramai socialismo democratico, riformismo socialista, socialismo liberale e liberalsocialismo siano tra di loro sinonimi. Rappresentano in forme verbali diverse sostanzialmente la medesima cosa: la realtà attuale del movimento socialista nella sua vasta gamma, differenziato secondo le varie caratterizzazioni nazionali e continentali. Un movimento vastissimo, su scala globale, allo stesso tempo rappresentativo delle singole società in cui sono sorti e si sono sviluppati i vari partiti che compongono l’Internazionale socialista.
In tal modo, nel loro complesso essi hanno compiuto un passo storico in direzione del passaggio da una rivoluzione liberale, da cui hanno ereditato i valori di libertà per completarli in una rivoluzione sociale che ha di mira l’affermazione dei diritti umani, dell’uguaglianza e dell’emancipazione dei poli e delle classi più deboli.
Il socialismo, nella fase attuale, è dunque il compimento di un processo di trasformazione liberale della società, che presenta sempre di più segni tangibili di tale trasformazione, sia pure in forme diverse e contraddittorie, pacifiche o altamente drammatiche.
Una trasformazione significativa è quella che riscontriamo nella struttura economica e sociale, specie delle aree storicamente più evolute del mondo. In esse si registra infatti una crescente socializzazione delle risorse, nel senso che dappertutto la quantità delle risorse che vengono trasferite alla collettività è crescente.
Il riformismo praticato dalle forze socialiste, che appariva minimalistico ed inconsistente a rivoluzionari ed intransigenti, ha alla lunga dato luogo ad un cambiamento epocale. Qualcuno, come Karl Popper, l’aveva definito “riformismo a spizzico”, oppure “riformismo d’accompagnamento”. Ed era stato contrapposto a un non meglio identificato “riformismo di struttura”.
Invece questi “programmi minimi” ma corrispondenti ad esigenze reali della società e dei cittadini hanno finito nel loro complesso per cambiare alle radici i rapporti di vita reale in senso fortemente solidaristico. Hanno socializzato la previdenza; la sanità, i trasporti; l’istruzione. Hanno spostato quote imponenti di risorse dagli individui che le producevano alle istituzioni pubbliche, dal governo centrale agli enti locali chiamati a gestirle.
All’inizio del Novecento il volume dei trasferimenti era in media il 4%. Keynes pronosticava nel 1924 che sarebbero saliti al 20%, non di più. Alla fine del secolo essi si aggirano tra il 40 ed il 50%, cioè quasi metà della ricchezza prodotta dai singoli viene affidata alle istituzioni pubbliche per provvedere ai bisogni della comunità. E nonostante ciò i bilanci pubblici sono costantemente in rosso: una trasformazione così radicale è stata determinata dall’azione riformistica, trasformando il volto della società attuale.
L’ineluttabilità di un riformismo socialista liberale transnazionale conferma la piena identificazione che si è realizzata tra l’origine liberale e quella socialdemocratica delle correnti storiche che sono in essa convenute. L’opera di Luigi Rocca ne offre un’ulteriore prova. A conclusione della sua lettura, potremmo affermare che il dilemma inestricabile che molti in passato hanno voluto rinvenire nel concetto di liberalsocialismo deve considerarsi largamente superato. E che l'”ircocervo” di cui parlò Benedetto Croce in polemica con Calogero per significare il carattere meticcio del liberalsocialismo è pura fantasia.
Semmai, si dovrebbe parlare dell’incrocio felicemente riuscito tra due purosangue che ha dato vita a un autentico cavallo di razza.
(da Antonio Landolfi, Prefazione a Luigi Rocca, L’attualità del socialismo liberale di Carlo Rosselli, Piero Lacaita Editore, 2006)
Le immagini: la redazione della rivista/foglio clandestino antifascista Non Mollare: Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Luigi Emery, Nello Rosselli (foto del 1925 di autore sconosciuto) e la copertina del libro di Luigi Rocca.
Rino Tripodi
(Lucidamente, anno V, n. 60, dicembre 2010)