“La comunità dei viventi” (Editrice Clinamen) del filosofo Idolo Hoxhvogli è un’opera inconsueta, scomoda, devastante…
«La scrittura è forse un modo per convertire l’invisibile»: è la dedica personalizzata, quanto mai originale e insolita, elargitami dal filosofo Idolo Hoxhvogli. L’ho ammirata, vergata sul frontespizio della copia del suo nuovo libro a me destinata. Un volumetto composto da parole misteriose, ermetiche, intrise di analogie metafisiche. La preziosa “operetta” – pensiamo a Giacomo Leopardi – s’intitola La comunità dei viventi (Editrice Clinamen, Firenze 2023, pp. 58, € 13,90).
Il mistero dentro il mistero
Di tale pubblicazione indefinibile, oscura fin nel titolo, inclassificabile, che ha suscitato molto interesse presso varie testate, già due mesi fa la nostra rivista aveva pubblicato alcuni brevi estratti (vedi “La libertà come errore di sistema”). Essa è costituita da 47 capitoli, ciascuno con un proprio titolo, con una rete di collegamenti tra essi in sottile filigrana. Ma è giusto definirli capitoli? O sono apologhi? Visioni? Aforismi?
Se è arduo definirne il genere, ancora più problematico – ma stimolante ed esaltante – risulta coglierne qualche significato sedimentato nelle inscrutabili e imperscrutabili profondità. Il libro è una ragnatela senza inizio né fine: ogni sua frase conduce alla sua interezza, la sua interezza a ogni sua frase. Un libro breve quanto infinito per la sua densità. Come tutto ciò che è alto – ad esempio, l’eccelsa poesia – è ineffabile. E, come ci ha insegnato Dante Alighieri, di fronte al sublime non esistono parole che possano rappresentarlo. Seppure scritto con le parole, infatti, il libro di Hoxhvogli comunica/suggerisce al di là di esse e del loro significato denotativo, ma anche connotativo.
Potremmo allora riprendere la Prima lettera ai Corinzi, 13, 12: «Videmus nunc per speculum in enigmate, tunc autem facie ad faciem» (“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia”).
Una voce mistica nel deserto?
La comunità dei viventi è, infatti, certamente un testo religioso, un urlo lanciato contro il nostro mondo dominato dal materialismo, dalla perdita di ogni ricerca di trascendenza, dalla tecnoscienza («La macchina, per l’uomo, è un fare a meno di fare. L’uomo, per la macchina, è qualcosa di cui fare a meno. Lo scopo del governo è mettere in sicurezza gli uomini: per tenerli al sicuro li imprigiona, poi fa sì che muoiano, perché da morti non possono più morire lentamente come facevano ogni giorno. Nulla di pericoloso accade a uomini esonerati dalla vita.
Nella città della macchina le operazioni sono compiute sotto l’imperativo governativo della logica securitaria: decreta, per il bene dell’uomo, la sua fine. Non importa che l’uomo sia vivo. Importa che sia al sicuro, morto. Chi prima muore, più a lungo è salvo», p. 33).
I topoi più ricorrenti sono la mappa, il tempo, lo spazio, l’eternità, il corpo, lo spirito, la violenza incarnata nell’uomo, la libertà oggi impossibile, un Dio onnipresente quanto impenetrabile.
Un lungo fil rouge
L’autore lancia il proprio messaggio disperato ricorrendo a un genere e a uno stile originali, oggi insoliti, eppure legati a una tradizione che si perde nei millenni, dai testi sacri ai pensatori più estremi e coraggiosi.
Dal già citato Leopardi “filosofo” all’Italo Calvino profeta de Le città invisibili. Dalle uggiosità estreme di Albert Caraco ed Emil M. Cioran al misticismo del regista Andrej Tarkovskij. L’apologo La stanchezza dell’imperatore (p. 43) ricorda analoghe enigmatiche, mirabili paginette di Franz Kafka, mentre deliziosa risulta un’altra narrazione dello stesso genere, Nuvolario (p. 53).
A dominare e connotare La comunità dei viventi è l’uso costante dell’indicativo presente, che ci trasporta entro un tempo/dimensione indefiniti quanto eterni. Una scrittura spessa, visionaria, oracolare, profetica, dai contenuti permeati di violenta religiosità e spiritualità. I simboli, le analogie, le immagini, si succedono gli uni agli altri (e dentro gli altri), senza soluzione di continuità.
L’apocalisse
Tuttavia, i brani più inquietanti sono quelli nei quali la visionarietà diventa apocalittica, con veri e propri squarci di orrore: «Un giorno l’universo brucerà, Dio compreso, cenere fluttuante nello spazio angosciato» (p. 29).
Quasi insostenibile risulta la seguente allucinazione: «Gli uomini chiedono alla Madonna di abortire Dio. In caso contrario faranno a pezzi il bambino. Lei si rifiuta. Mani ostili attraversano impazienti la cervice e rovistano nell’utero stracciando il feto. Dio è lì, spappolato con la placenta sul pavimento. Le schiere celesti si sfaldano. Rimangono la macchina e il governo» (p. 33).
Sicché, in ultima analisi, La comunità dei viventi, al di là della sua complessità, che richiede una lettura lenta e concentrata, attenta e “veggente”, risulta un testo scandaloso, crudele, spietato, scomodo, insopportabile per la nostra epoca e per la massa di uomini-zombie a essa conformati e da essa plasmati. Pertanto, un testo di salvezza.
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 216, dicembre 2023)