Con la sua creazione, edita da Star Comics, l’autore e illustratore francese Franckie Alarcon ci conduce in un viaggio speciale e pieno di passione e socialità, tra la tradizione e la modernità che caratterizzano la succulenta pietanza giapponese
Il progetto è quello di trasformare la passione, e i primi tentativi di confronto con la preparazione del piatto più in voga nella dieta alimentare di ogni Weltbürger del XXI secolo, in un’esperienza culturale vivida e lontana dal manierismo che aleggia intorno al sushi nel tardo Novecento. Così l’illustratore francese Franckie Alarcon apre le porte a un fumetto innovativo, nelle forme e nei modi: L’arte del sushi (Star Comics, pp. 160, € 14,16). Prima di passare al vaglio i contenuti, siamo sicuri che si tratti “solo” di un fumetto, avverbio con cui l’autore depista il lettore, attraverso la mano leggera del proprio alter ego nel graphic novel?
Partiamo esattamente da un’indagine morfologica del “manierismo” applicato alle forme del sushi. Per afferrare i termini della transizione culturale, occorre fare un balzo indietro nel tempo e intentare un’analisi del pregiato piatto tornando agli anni Ottanta e Novanta del Novecento. In tale periodo il sushi conserva tratti caricaturali, oltre al fascino di una pietanza attorno cui aleggia la patina del tempo, del wabi-sabi, di un che di ornamentale che acuisce e rafforza – anche agli occhi dello straniero – il contrasto tra il fluire inesorabile del tempo e la bellezza estatica di ciò che mai passa di moda. Questa visione ha conferito sì grande dignità e decoro, ma ha ipostatizzato la visione di un Giappone fermo alla tradizione, nel quale l’involuzione sovrasta ogni tendenza evolutiva. Con la rivoluzione culturale prodottasi e istituzionalizzata dopo il 2000, negli ambienti culturali nipponici si prende a ragionare sulla possibilità di assegnare anche al sushi l’etichetta del pop, conferendogli un animo gioviale ed eco-friendly, sostenibile sul piano dei costi e della diffusione oltreoceano. Tale passaggio è fondamentale per afferrare non solo lo spirito seduttivo di Alarcon, ma anche le ragioni per cui il sushi diviene in pochi anni più kawai della pizza, assurgendo la sua centralità nel fumetto come nel cinema di animazione.
Di pari passo con la crescente democratizzazione della società giapponese, il sushi cede l’etichetta di un piatto destinato ai ceti più facoltosi per consegnarsi al fruitore interessato e concedergli di vivere un’esperienza estetica, esaltando il piacere grazie a una sinestesia di immagini e di colori in grado di ritmare l’equilibrio perfetto e la geometria delle forme. Tuttavia, il sushi è divenuto anche altro: elemento partecipativo e di aggregazione, simbolo di ritrovata convivialità.
Ridurre sinonimicamente il sushi alla degustazione di un aperitivo non rende giustizia né ad Alarcon né all’evoluzione culturale del sushi stesso, dal momento che in questo piatto si celano contraddizioni e tensioni di una società cristallizzata nel contrasto tra modernità e tradizione, velocità e progresso da un lato, rispetto delle forme dall’altro, energia e creatività negli chef moderni, geometria e perfezione negli antichi sushiya (cuochi di sushi). Tale premessa ci conduce alla formula impiegata pocanzi: un intrigo di involuzione e di evoluzione. A dispetto del carattere “genuino” con cui il fumettista ritrae la frattura fra antico e moderno – restituendo al più la solennità dell’ambiente e la ritualità delle operazioni con le quali il maestro Hachiro Mizutani gestisce il cliente e la preparazione delle pietanze –, nel graphic novel è sfuggente la tensione sottostante. Il gruppo di turisti non smette di esaltare i rituali e la solennità dei maestri giapponesi, rimettendo nelle more del ritrovamento parte della propria francesità. L’arcipelago stupisce, incanta con il suo volto evergreen e ricompensa il turista di turno. Ma attenzione a non tradire i grandi maestri, poco democratici nel riconoscere approcci e forme disgiunte dalla propria dottrina del fare. Mizutani è il più conservatore, un sushiya intransigente, per nulla incline a dismettere la tradizione in favore di mode che impazzano in Giappone e altrove.
Mizutani, come gli altri sushiya, mantiene alto il contegno, evitando di formulare giudizi perentori sull’operato dei maestri occidentali come il parigino Yannick Alléno. Tuttavia, la perentorietà si riconosce ugualmente nei termini del confronto: i turisti francesi sono in visita per imparare, si atterranno alle regole dell’interazione e il ritmo spasmodico delle loro domande e curiosità non codificherà nuove forme di interscambio.
Hachiro Mizutani è l’allegoria della tradizione, il correlativo oggettivo di una società contraddittoria, che prende a stridere con l’orgoglio di chi reitera modismi e ritualità. Mizutani è il tentativo forsennato di convivere con un presente imperituro. La difficoltà risiede nel mantenere inalterato lo spirito ieratico che ha caratterizzato la cultura giapponese per secoli. Tale convivenza rischia di essere fagocitata dal dinamismo, dal mix di umori e dallo spirito creativo che anima le personalità più estroverse e cosmopolite dentro e fuori il Giappone. Il sushi si attesta a prodotto gastro-culinario incline allo sperimentalismo, rispondente all’evoluzione dei tempi e alle mode. L’esempio più calzante della nuova filosofia di vita viene restituito dalla cucina di Okada, uno chef attento a democratizzare la gastronomia, proponendo piatti in grado di incontrare il gusto di artisti, galleristi, studenti e ceti deboli. In poche parole, una cucina incline a curare l’altra anima del Giappone, quella che del compromesso sociale e culturale fa una virtù. In questi ambienti flair, i turisti non faticano a ritrovare un pizzico di francesità, esaltata non più come kitsch ma come simbolo di un confronto pronunciato grazie alle cose, prima che alle persone. Un confronto caratterizzato da un giocoforza di attrazione e (sempre) minor repulsione. Una prospettiva ridanciana, talvolta canzonatoria di sé e dell’altro, contrasta con lo spirito edificante delle nuove generazioni.
In tal senso, il progetto di Okada diviene emblema di un Giappone che spinge dall’interno, pur difettando delle energie e della flessibilità richieste per attuare il cambio di paradigma. È emblematico che, dopo il sushiya Mizutani, Alarcon concentri tutti gli sforzi narrativi sulle nuove generazioni. Dopo l’eclettico Okada, che utilizza il sushi e il suo ristorante come espediente artistico-culturale per nutrire corpo e spirito, è il turno di Hide e Kana, una coppia eccentrica in grado di stabilire sinergie con i nuovi arrivati. Il Giappone restituito dal graphic novel di Alarcon assume la fisionomia di un Paese all’avanguardia sul piano tecnico e più consapevole nei confronti dell’ambiente e della natura.
La crudeltà che aleggia attorno alle pratiche della pesca viene repressa in favore di approcci bioetici costruttivi: stressare meno l’animale e procurargli meno dolore possibile. Nel volume, il lettore sentirà parlare dell’ikejime, tecnica con cui, oltre a lasciar defluire il sangue e sottrarre alla carne un gusto altrimenti metallico, si recidono i nervi del sistema nervoso centrale, procurando all’animale una morte istantanea. La morte perde il volto truce, camuffando la veemenza delle pratiche con cui samurai e ronin si toglievano la vita: tagliare il pesce alla maniera di Tokyo non va bene perché, dirà la signora Tanemura, «a Tokyo c’erano molti samurai, e aprire un pesce dalla pancia ricordava troppo l’harakiri, il rituale del suicidio». Il graphic novel si dota di una componente emotiva, di precetti da seguire, validi per i neofiti e per i cultori della materia sushi. L’argomento è vasto, trattato con attenzione verso le altrui sensibilità, evitando di risultare pretenziosi o di emettere giudizi superficiali. Sul piano tecnico, il graphic novel non delude, riuscendo a seguire una struttura diegetica precisa: un inizio, un dénouement della trama e un punto di arrivo coincidente con il ritorno in Francia.
Gianluca Sorrentino
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 182, febbraio 2021)