Due opinioni (non sempre d’accordo) in redazione sull’evoluzione del genere
Rino Tripodi: Cara Claudia, in breve: la mia tesi di fondo è duplice. La prima è che il videoclip è – e, come dirò, soprattutto “era” – una vera e propria forma artistica; la seconda che essa si è espressa al meglio, ha avuto il suo periodo “aureo” negli anni Ottanta, dopo il quale si è verificata una rapida decadenza fino ad arrivare alla produzione odierna, che giudico per lo più di scarso livello.
Claudia Mancuso: Non mi trovi d’accordo su tutto ciò che affermi. Condivido l’attribuzione di dignità artistica al videoclip musicale, ma, a proposito della sua supposta decadenza a partire dagli anni Novanta, avrai modo di ricrederti.
RT: Che il videoclip sia una forma artistica multimediale e non solo uno strumento pubblicitario per chi “vende” musica è dimostrato da molti aspetti, esterni ed interni al genere. Innanzi tutto, il fatto che notevoli registi si siano prestati per la creazione di videoclip e che spesso si siano raggiunti livelli estetici altissimi. Poi, dal punto di vista della struttura interna, un prodotto che contiene musica, parole, immagini, recitazione, movimenti di macchina, effetti speciali, creatività, e che può persino giungere ad essere un racconto filmico completo di una storia, seppure in pochi minuti, sembra concretizzare l’antico sogno – decadente, ma anche futurista – di un’arte totale, che racchiuda in sé tutte le manifestazioni creative.
CM: E questo è avvenuto massimamente negli anni Novanta, nel corso dei quali registi del calibro di Spike Jonze, Jonathan Glazer e Michel Gondry hanno messo la loro arte visionaria, nonché la grandissima abilità di abbinare immagini a beat, a disposizione proprio dei videoclip. E il fatto che in questo campo siano riusciti a raggiungere l’apice della loro carriera (cosa che non sempre è avvenuta quando hanno prestato il loro talento al maxischermo per film certo controversi e visionari, ma non sempre apprezzati), dimostra come il videoclip “di ultima generazione” sia potente e comunicativo non meno di quello degli anni Ottanta.
RT: Indubbiamente il videoclip è una forma artistica a sé stante. E’ musica ma non solo, immagine ma non solo, ricerca estetica ma anche medium commerciale. Gli inizi furono entusiasmanti. Anche grazie alle nuove tecnologie, in molti videro nel videoclip la possibilità di realizzare traguardi creativi prima inesplorati. La performer Laurie Anderson fu una di coloro che meglio sfruttarono le possibilità della nuova “arte”. Per non parlare di Brian Eno. Persino Miles Davis ne è protagonista, in Decoy.
CM: Ma anche i Radiohaed, i Chemical Brothers, i Daft Punk, sono riusciti a potenziare l’effetto della loro musica attraverso l’uso sapiente di immagini. E’ solo del 2002 il video Star Guitar – firmato da Gondry – in cui i Chemical Brothers, attraverso i paesaggi, i palazzi, le fabbriche che passano veloci dal finestrino di un treno, riescono ad impregnare di grandezza immaginifica i suoni elettrici della loro musica. E come dimenticare la faccia stolida di Richard Ashcroft, allora performer dei Verve, che nel 1997 camminava per strada, noncurante delle proteste della gente che prendeva a spallate, faceva cadere, calpestava, nel video storico di Bittersweet simphony, curato da Walter Stern (lo stesso che un anno dopo firma Teardrop dei Massive Attack, in cui la canzone viene fatta cantare ad un feto). Immagini forti e discutibili, ma che imprimono nella memoria suoni e sensazioni.
RT: La trasmissione Rai Mister Fantasy di Carlo Massarini fu un’autentica rivoluzione estetica. La percezione del “cambiamento” arrivò non solo tra i giovani e gli operatori del mercato musicale. Non a caso, qualche tempo dopo, sorse l’emittente tv Videomusic. Tanto per fare un altro esempio, alter alter, costola di Linus della Milano Libri, dedicò il n. 6 del giugno 1984 – di cui conservo gelosamente una copia – a Mister Fantasy e ai videoclip. Furono ospitati interventi di Goffredo Fofi, Pier Vittorio Tondelli, Gianfranco Manfredi, Mario Luzzatto Fegiz, Gianni Riotta, Riccardo Bertoncelli, oltre all’inevitabile intervista a Massarini. E, soprattutto, i migliori “fumettari” del tempo – ma si dovrebbero chiamare illustratori o genericamente pittori -, quali Daniele Scandola, Marcello Jori, Massimo Iosa Ghini, Maurizio Corrado, Massimo Giacon, Lorenzo Mattotti e Jerry Kramsky, Giorgio Carpinteri e Igort, crearono “fumetti” ispirandosi ad alcuni video del momento: Owner of a Lonely Heart degli Yes, China Girl di David Bowie, Thriller di Michael Jackson, I Don’t Remember di Peter Gabriel e Life Boat Party di Kid Creole & The Coconuts. I risultati furono eccezionali.
CM: I fumetti non hanno mai smesso di esercitare il loro fascino sul videoclip. I Pearl Jam affidano a Todd McFarlane (autore di Spawn) le immagini di Do the evolution (1998), mentre i Daft Punk nel 2001 scelgono Leiji Matsumoto (il mitico disegnatore di Galaxy Express e Capitan Harlock) per le immagini del video di One more time e di tutti gli altri singoli del loro disco in uscita quell’anno, creando così una saga e trasformando Discovery in un vero concept album.
RT: Anche nei primi video i riferimenti culturali – a film, dipinti, libri – erano frequenti. Si pensi a Vienna degli Ultravox, a Radio Gaga dei Queen, ai video degli A-ha… Altri sfioravano quote di pura arte, come New Frontier (Donald Fagen), René and Georges Magritte with their dog after the war (Paul Simon), o Individual Choice di Jean-Luc Ponty, che usava le tecniche già sperimentate da Godfrey Reggio per Koyannisqatsi. Indimenticabile lo stile dei Talking Heads. E che dire dei video di Grace Jones? E i lavori dei Police e di Sting, dei Genesis e di Peter Gabriel, che certo non avevano bisogno di particolari supporti video per la loro musica già di alto livello.
CM: I riferimenti ai film sono tutt’ora presenti ed espliciti. Grandissima è l’influenza esercitata dal genio indiscusso di Stanley Kubrick, le cui atmosfere malsane ed allucinate vengono letteralmente citate da Glazer per il video di Karmakoma dei Massive Attack (1994), in cui, lungo il corridoio di un lugubre albergo, si dipanano scene di terrore e morte. Evidentemente molto impressionati dal risultato dovevano essere rimasti anche i Blur, che l’anno dopo scelgono lo stesso Glazer per il video di The universal, in cui, vestiti da drughi, sorseggiano “latte più” al ritmo della loro musica. E che dire di Sabotage dei Beastie Boys (1994), in cui Jonze decide di citare con divertita sapienza i polizieschi degli anni Settanta?
RT: Altri video narravano in tre minuti delle storie, quasi un romanzo. Penso allo splendido The smalltown Boy dei Bronski Beat, al già citato Owner of a Lonely Heart degli Yes – forse il video più bello di ogni tempo -, o a Bruce Springsteen. Altri erano raffinati come la musica di Sade o di Bryan Ferry/Roxy Music. Altri ancora erano estremamente “dark” (quelli dei The Cure, di Gary Numan, di Billy Idol, dei Joy Division, o dei meno noti Danse Society). Non mancavano video scherzosi e quasi burleschi (Matt Bianco, Kid Creole & The Coconuts, The Cars, Devo, Talk Talk, Industry, Echo & the Bunnymen). Persino i “mostri sacri” commerciali, quali Michael Jackson, Duran Duran, Spandau Ballet, Wham!/George Michael, Eurythmics, Tears for Fears o Pet Shop Boys, producevano video se non altro patinati, con ambientazioni esotiche o ben curati visivamente. Del resto, anche oggi i Depeche Mode si difendono bene. Mitici Relax e Two Tribes di Frankie goes to Hollywood, e i video dei Madness e dei Men at Work.
CM: Ai giorni nostri Depeche Mode e Cure continuano a pubblicare musica e video di altissimo livello, riuscendo ad incarnarsi in idoli intramontabili anche per chi, come me, pur appartenendo ad un’altra generazione, non ha perso occasione di vederli in concerto. In particolare, partorito dal genio visionario dell’apprezzatissima regista italiana (ma americana di adozione), Floria Sigismondi, ricordo il video dei Cure The end of the world (2004), in cui una casa si distrugge attorno a Robert Smith ed ogni cosa si riduce a niente in corrispondenza dello sgretolarsi di tutte le certezze del cantante.
RT: Vorrei ricordare anche qualche artista o gruppo “dimenticato”, che pure hanno fatto parte di quella magnifica pattuglia di innovatori del suono e dell’immagine: A Flock of Seagulls (bellissimo Nightmares), Nina Hagen, completamente folle, così come gli Yello, i simpatici Lotus Eaters, gli Inxs, i Machinations (My heart’s on fire), Mr Mister (Broken Wings), i Propaganda (Dr Mabuse), Paul Hardcastle (19)…
CM: Gruppi meno noti alle masse, ma comunque apprezzatissimi da un pubblico di nicchia, in questi anni hanno prodotto video raffinati in corrispondenza di musica altrettanto curata. Mi riferisco, in particolare, ai norvegesi Kings of Convenience, che, in I’d rather dance with you (2004), fanno ballare, con il massimo dell’ironia, uno dei due componenti in una classe di danza classica per bimbe. Gli islandesi Sigur Ros producono poi, con Glosoli e Hoppipolla (2005), video musicali al massimo della delicatezza poetica.
RT: E in Italia? Qualcuno arriccerà il naso, ma credo che il gruppo che abbia capito bene cos’era e come andava usato il nuovo strumento mediatico del videoclip siano stati i Matia Bazar. Ovviamente, Franco Battiato è stato, come al solito, uno dei primissimi a cogliere l’occasione al volo. Simpatico Ivan Cattaneo coi suoi Italian graffiati. Altri dimenticati iniziatori, gli straordinari Krisma (Maurizio Arcieri e Cristina Moser), Garbo, Gaznevada, Diaframma, fino a Scialpi e agli introvabili N.O.I.A.
CM: I video nostrani che più apprezzo sono quelli dei Tiromancino, esilaranti in La descrizione di un attimo (2000) e in Amore impossibile (2005) – rispettivamente parodie delle celebri coppie da fumetto Tarzan-Jane e Diabolik-Eva Kant -, oppure commoventi in Per me è importante (2002) e Imparare dal vento (2005). Fanno, poi, molto riflettere i video Il mio nemico (Daniele Silvestri, 2002) e Mi fido di te (Lorenzo Jovanotti, 2005), entrambi animati da un rigurgito anti-Usa.
RT: Quelli che non sopporto, dei video vecchi e nuovi, sono i filmati dei concerti dal vivo, magari inframmezzati a qualcos’altro: in questa tipologia manca completamente la creatività.
CM: Di solito si tratta di operazioni commerciali: vengono mostrate scene da concerto al fine di invitare gli spettatori ad acquistare i dvd delle performance dal vivo tenute nelle varie città, italiane o meno.
RT: Se qualche decennio fa il videoclip costituiva anche un mezzo per lanciare un disco, adesso ha solo tale funzione. In ogni caso, è scaduta la qualità delle immagini, alla pari della musica.
CM: Chi non si apre al nuovo e rimane fermo nelle proprie convinzioni non ha possibilità di crescita. Mio caro Rino, è evidente che ti sei fermato ingiustamente agli anni Ottanta, e chi perde qualcosa di importante sei proprio tu.
RT: Azzardo, e tento di fare una breve e sinteticissima “Storia della musica giovanile”. Direi che negli anni Sessanta hanno prevalso i contenuti, ovviamente di protesta sociopolitica. Negli anni Settanta – decennio d’oro per la musica – si sono raggiunti apici formali e sperimentali irraggiungibili. Negli anni Ottanta, in sintonia col “riflusso” e con l'”edonismo reaganiano”, la musica perde i suoi connotati sperimentali e “progressive“, diventa patinata, facile, piacevole, ma mantiene un buon profilo estetico con sonorità gradevoli e comunque originali. Poi… hic sunt leones!. Dagli anni Novanta in poi mi pare di assistere a un decadimento di tutte le forme artistiche – dalla letteratura al cinema, che spesso punta soltanto sugli effetti speciali -, quindi anche della musica. Senza fare dietrologia, mi sembra che il potere, che oggi è rappresentato da economia e mass media, in primis televisione, sia riuscito a farci diventare tutti più ignoranti. Da qui una produzione musicale fracassona, senza inventiva, senza contenuti – anche nel caso degli artisti “di protesta” o “pacifisti”, comunque sciatti e banali – da propinare a teen agers con scarso spirito critico e le tasche abbastanza piene. Facendo davvero dietrologia, c’è chi dice che sia tecnicamente più facile, non solo per gli artisti, ma anche per le major, “fare” dischi che non abbiano quelle sonorità così espressive, originali, complesse e raffinate degli anni Settanta. Ma, forse, sto invecchiando…
CM: Parlare solo dell’aspetto commerciale della musica prodotta a partire dagli anni Novanta non rende giustizia alle grandi sperimentazioni di questo decennio. Proprio ai Novanta si deve, infatti, l’invenzione di un genere musicale nuovo, carico di tutta l’insofferenza dei Nineties: parlo del grunge. I Nirvana e, in particolare, il loro indimenticato leader Kurt Cobain, si sono guadagnati un posto nell’Olimpo della musica. E, all’opposto, anche la costruzione di gruppi a tavolino, per quanto detestabile e fasulla, rappresenta un aspetto tutt’altro che trascurabile: è una vera svolta epocale. Da quando si è compreso che i teen agers sono i grandi consumatori del nuovo millennio, il vero motore dell’economia, si è deciso di assecondarli, producendo musica banale per chi si trova ancora in una fase di costruzione della propria personalità ed è incerto sui propri gusti. E’ molto facile accontentare questo target, basta scegliere cantanti bellocci (a quell’età la bellezza trasmette sicurezza), che eseguano pezzi orecchiabili e si sappiano muovere. Eppure non è detto che anche da queste formazioni ad uso e consumo degli adolescenti non venga fuori qualcosa di buono (vedi il caso di Robbie Williams – ex Take That – ora leader indiscusso del pop mondiale).
RT: I migliori musicisti degli anni Settanta, e, quindi, in assoluto, sono stati: Pink Floyd, King Crimson, Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Jethro Tull, Yes, The Doors, The Velvet Underground & Nico, Procol Harum, Van der Graaf Generator, David Bowie, Gentle Giant, Brian Eno, Frank Zappa, Crosby, Stills, Nash & Young e Joni Mitchell, i “progressive” Robert Wyatt, Soft Machine, Henry Cow/Slapp Happy/Art Bears, Caravan, i teutonici Tangerine Dream, Popol Vuh, Kraftwerk, per non dire dei “jazzisti” Miles Davis, Keith Jarrett, Weather Report, Ralph Towner/Oregon e della “musica ripetitiva” di Philip Glass, Terry Riley e Steve Reich; da noi Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi, Le Orme, Stormy Six, il primo Alan Sorrenti, Battiato, i “jazzisti” Agorà e Perigeo, molti altri, ormai caduti nel completo quanto ingiustificato oblio, e qualcosina – ma solo qualcosina – dei sopravvalutati “cantautori”. Insomma, una stagione irripetibile.
CM: Mi inchino di fronte a questi nomi, ma non posso assolutamente avvallare la tua teoria per cui la vera musica si è suonata solo in passato, mentre tutto ciò che è nostro è solo una brutta copia della vostra grandezza. Non è giusto, non si possono liquidare così i nostri grandi performers. Parlo degli U2, dei R.E.M., dei Red Hot Chili Peppers, portatori di una bandiera della quale andiamo più che fieri. E in Italia, ovviamente, del grandissimo Vasco, ma anche di Ligabue.
RT: Negli ultimi anni mi sono comunque molto piaciuti alcuni video come Le vent nous portera dei Noir Desir, The End dei Linkin Park, Song for Absolution dei Muse, Poor Leno e What else is there? dei Röyksopp molti di quelli targati The Cranberries e quasi tutta Bjork. E l’ironico, kitsch, quasi necrofilo, Me cago en el amor (Mondo difficile) di Tonino Carotone.
CM: Lo vedi che, quando vuoi, sai apprezzare “il nuovo che avanza”?
RT: Certo, ogni generazione ha i suoi gusti e consumi, tuttavia credo sia importante non perdere una certa scala estetica, altrimenti rischiamo che Tiziano Ferro valga quanto Mozart…
CM: Questo non accadrà mai, non temere. Seppur nati e cresciuti tra gli Ottanta e Novanta, abbiamo dei validi parametri di giudizio anche noi!
L’immagine iniziale: le copertine di due raccolte video di David Bowie e Ultravox, protagonisti di videoclip tra i più belli mai prodotti.
Claudia Mancuso e Rino Tripodi
(LucidaMente, anno I, n. 11, novembre 2006)
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