Come sospesi nel vuoto (inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 76, € 12,00 – quinto volume della collana di poesia Le invetriate diretta da Marco Gatto) di Serena Accàscina è una silloge raffinata e colta, ricca di riferimenti a maestri come Eugenio Montale e strutturata in parti secondo un arcano, affascinante criterio, legato alle stagioni del tempo e a spazi interiori impregnati di stupori e trasalimenti metafisici. L’opera è preceduta da una preziosa Prefazione di Roberto Caracci (L’anima nuda nell’abito delle stagioni).
Eccone il testo, per intero, di seguito.
Anche l’anima ha le sue stagioni, come la terra, come gli alberi, come il nostro stesso corpo sottoposto al decorso degli anni. Muta qualcosa in noi, sempre, nel momento stesso in cui muta qualcosa fuori di noi, dal colore delle foglie al sapore del’aria, dalle metamorfosi dei cieli alle ombre e luci della terra. In questo, anche in questo, siamo figli dell’universo, aggrappati al suo cuore con un cordone ombelicale che non si spezza: del resto anche l’universo sembra ogni giorno rinascere e morire con noi.
Le stagioni dell’anima riflettono e al tempo stesso reinterpretano quelle della terra. Ciascuno di noi rivive nel suo profondo l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la decadenza del mondo e, per dirlo con Serena Accàscina, un inverno, una primavera, un’estate e un autunno del mondo. Ma questo accade non solo nell’orizzonte di una vita, ma anche in quello di ogni giorno, che dal mattino alla notte si configura nel suo microcosmo come un ripetuto specchio del nostro destino. Tuttavia, se l’anima ha le sue stagioni, ciò vuol dire anche che l’anima vive una temporalità più simile all’eterna ciclicità di madre natura che a quella rettilinea, messianica e irreversibile del tempo come storia. Se vi è una eternità nella natura delle cose – come cantava duemila anni fa Lucrezio -, vi sarà dunque una eternità dell’anima, come tempo reiterato, come eterno ritorno delle stesse emozioni e passioni, dei medesimi orizzonti di senso. L’anima vive l’ossimoro di una sua eternità stagionale, nel quale il tempo si curva al punto di non essere più tempo, storia, fiaba a triste o lieto fine, ma eterno stagionale passaggio, eterna metamorfosi delle stesse configurazioni della vita come destino.
Non è solo vero che noi proiettiamo sulle stagioni le nostre emozioni, né all’opposto che le stagioni intridono le nostre passioni – come il gelo esterno può generare brina nella nostra anima o la vampata estiva può rendere torridi i nostri desideri: è vero invece che, essendo noi, come direbbe Ungaretti, docili fibre dell’universo, possiamo forse misurare il grado della nostra felicità solo sulla base di un rapporto biunivoco, simbiotico e per così dire empatico fra la stagionalità della natura e quella della nostra anima, nel cui ambito la proiezione del nostro gelo sul gelo invernale, ad esempio, può essere interpretata come una contro-proiezione al gelo dell’inverno su di noi, una baudelairiana corrispondenza entro la quale simbolicamente non si risponde se non si cor-risponde, da una parte e dall’altra. E così, nella silloge della Accàscina, il correlato oggettivo di un Albero carico e bianco / di neve cadente assume un valore che, pur partendo dal clima stagionale di cui è espressione, ossia quello dell’inverno, si scinde simbolicamente in un doppio significato di “peso” sull’anima (peso della neve sui rami) e di liberazione, s-gravamento dell’anima (la neve che pesa sui rami fa pensare al travaglio di una donna che sta per liberarsi, con i rami aperti come braccia). Qui è l’anima che interpreta il peso della neve come gravame fecondo di liberazione, nel dolore, dunque come un partorire nella natura in quella culla fredda di semi di vita che in fondo è l’inverno.
Il gelo invernale in queste liriche si associa alle passioni del vuoto e dell’attesa, ma sono le stesse passioni della terra. L’anima d’inverno – come il Cuore d’inverno di un noto film francese – è un punto interrogativo, una domanda aperta, con tutta la malinconica reverie di chi, nella sospensione, non sa se a questa domanda vi sarà una risposta. Immagini di calore supplicato emergono da questa condizione immobile e letargica. La risposta ricercata coincide con il consenso a un abbraccio, che ha qui il valore del tepore animale di una madre che covi le sue uova: Appoggiare / la mia solitudine / alla tua, / appoggiare il mio corpo, / perdersi / nel tuo, / unire la mia anima / attraverso / il tonfo del cuore / che risuona. E, ancora: È il freddo che mi prende / e una domanda sale / dal mio profondo abisso / vuoto d’amore / che chiama / il tuo abbraccio. A questa domanda nel gelo la primavera dovrebbe fungere da risposta, col suo primo sbocciare dei fiori e degli amori: è l’inquieta adolescenza. Ma la fine del letargo non vuol dire per l’anima quella dell’attesa, che anzi diventa ansia e talvolta tormento, conato e struggimento, simile a quelli degli amori adolescenziali: Quando verrai? / e a volte la tua voce / seduce e mi chiama. E nella lirica Visione: E ora che farai? / Attendo un segno. Qui il correlato oggettivo diventa il fiore lento a sbocciare, ad aprire i suoi petali.
Ma forse oggi / o domani / può esser nato / il fiore / sperando che / appassito / spunti un giorno / un altro fiore.
E che cos’è l’amore se non vedere di ciascuno / il fiore / e credere che c’è? La Accàscina racconta con immagini floreali ripetute il dramma primaverile della gestazione di un amore, la cui fragilità è proprio quella dei fiori, delle primule, forse, ma la cui persistenza va al di là delle morti individuali, delle passioni maturate e morte, e rinasce ogni volta dalle ceneri sotto forma di nuovi fiori – e nuovi eventuali amori (è il tormentato ottimismo dell’adolescenza). La stagione estiva sembra recuperare -sempre parlando dell’anima – i ritardi della gestazione primaverile e della difficile conquista della felicità, con un doppio aspetto poetico ed esistenziale: da una parte l’estate come maturità diventa in queste liriche la vera stagione delle metamorfosi e di un’almeno sospirata rinascita (chiara la simbologia del verme terreno mutato in aerea farfalla), dall’altra l’estate accoglie l’esperienza nuova e a suo modo sconvolgente del viaggio, viaggio esotico e a suo modo iniziatico, “alla ricerca di sé“, dal quale non si ritorna mai uguali a prima, ma in qualche modo morti e rinati. L’estate dell’anima è dunque il tempo una vera esperienza alchemica, dolce e brutale, di trasformazione, in cui la vita lancia ancora una volta il suo appello – nella luce, nei profumi, nei colori del mondo – e chiede di corrisponderle; ma lo fa in modo particolare in viaggio, dai luoghi più sacri della storia, la Giordania, il Sinai, la Palestina, dove ogni squarcio di paesaggio aperto agli occhi sembra schiudere un segreto e suggerirlo all’anima assetata di bellezza e di verità.
Un giorno – scrive la poetessa in Petra – all’alba rosa, / scorgere il paradiso / e rinascere in carne / anima viva e nuova, / creatura risorta / sento che qui potrei… E’ forse solo qui, in questi luoghi di un oriente gravido di divino, che i fiori, covati dalle nevi dell’inverno e strapazzati dalla precoce primavera, possono davvero aprirsi e sbocciare sotto un sole rinnovato e in un’aurea sacra che ridona la speranza di “rinascere”. Ma la vita, per la poetessa, è fatta di fiammate di luce cui segue l’ombra, di onde che cancellano altre onde, su di un oceano che comunque dobbiamo attraversare: Ogni onda che muore / – e tu moristi un giorno – / ogni volta rinasce / e ricresce in un’altra / nuova onda che frange / come tu sussurrasti / “sono finita”.
L’autunno è questo ritorno dell’ombra, questo riflusso del silenzio, e talvolta la riapertura di vecchie ferite forse mai suturate: la “fatica di vivere” è montalianamente rappresentata proprio da questo ritorno di maree infaticabili, che ci trascinano avanti e al tempo stesso ci riportano indietro, ad un passato che forse dovremmo dimenticare (Dimentichiamo tutto, / voltiamo pagina?). Tutto tende a ritornare al punto di partenza, come l’onda torna a riva, ma solo chi era vivo / prima, lo sarà / poi e sempre… Essere all’altezza di queste alterne vicende, di questa oscillazione nel tempo, è probabilmente il nostro destino, che come clessidra ci gira e ci rigira nelle stagioni, squassando i paesaggi fuori e dentro di noi, facendoli nascere e risorgere. Di tutto ciò l’anima si riveste, dei colori accesi dell’estate come della luce plumbea degli autunni. Ma qualcosa resta, ed è proprio l’anima (la luce della nuda / tua anima), profonda e inaccessibile, i cui confini – direbbe Eraclito – sono più irraggiungibili dei più remoti orizzonti.
Un’anima innocente e nuda come lo può essere una luce priva di colori, assolutamente inviolabile dietro l’avvicendarsi delle passioni, non toccata dai mille suoi abiti stagionali e capace di risorgere, di capovolgersi e di rigenerare ogni volta se stessa nel tempo.
(Roberto Caracci, L’anima nuda nell’abito delle stagioni, Prefazione a Come sospesi nel vuoto di Serena Accàscina, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina di Come sospesi nel vuoto di Serena Accàscina.
Francesca Gavio
(LM EXTRA n. 19, 15 gennaio 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 49, gennaio 2010)