«Ho scagliato una sedia leggera contro un vetro, rompendolo»: all’asta una lettera del 1961, scritta dall’attrice sui maltrattamenti subiti nella struttura di Payne-Whitney, dove era stata fatta internare dalla psichiatra Marianne Kris
Una lettera di sei pagine (in realtà la sua copia carbone) è uno degli oggetti appartenenti a Lee Strasberg, maestro di danza di Marilyn Monroe, al quale lei aveva lasciato in eredità i propri oggetti personali. La lettera, datata 1 marzo 1961 e indirizzata al suo psichiatra di New York Ralph Greenson, verrà prossimamente bandita all’asta. In essa Marilyn descrive il trattamento inumano cui era stata sottoposta dalla psichiatra Marianne Kris, che l’aveva fatta rinchiudere nell’Ospedale psichiatrico Payne-Whitney di New York. Il contenuto della lettera ci è stato inviato dal Comitato dei cittadini per i diritti umani, che l’ha tradotta da un articolo di Liz McNeil e Kathy Ehrich Dowd.
«Non c’era nessuna empatia a Payne-Whitney – ha avuto un effetto molto negativo – mi hanno messo in una “cella” (intendo con blocchi di cemento e quant’altro) per pazienti molto disturbati, ma io mi sentivo come rinchiusa in galera per un crimine che non avevo commesso».
«Mi sono seduta sul letto, cercando d’immaginare cosa avrei fatto in questa situazione se mi fossi trovata a fare una recita improvvisata. Mi sono detta “La ruota che ottiene olio è quella che cigola più forte” e devo ammettere di avere cigolato molto forte, ma l’idea mi era venuta dal film La tua bocca brucia: ho scagliato una sedia leggera contro un vetro, rompendolo. Ho dovuto picchiare parecchio per cavarne un pezzo di vetro, che poi ho nascosto nella mia mano aspettando che arrivassero. Poi gli ho detto: se dovete trattarmi come una pazza, allora mi comporterò come una pazza, aggiungendo che se non mi lasciavano andare mi sarei tagliata col vetro. Avevo fatto la stessa cosa nel film, ma con un rasoio. Naturalmente lei sa, Dr Greenson, che non avrei mai fatto una cosa del genere: sono un’attrice e non mi sognerei mai di farmi un segno o cicatrice, sono abbastanza vanitosa».
Marilyn racconta che in seguito a questo episodio lo staff la trascinò con la forza in un altro reparto, dove la accusarono di soffrire di gravi disturbi psichici: «Mi ha detto che ero molto, molto malata, e che lo era stata per molti anni, chiedendomi come potessi lavorare essendo così depressa, e meravigliandosi che la depressione non interferisse col mio lavoro. Era molto deciso e risoluto su questo, e invece di domandarmelo, pareva proprio che me lo stesse dicendo».
«Così gli ho risposto se non pensava che anche Greta Garbo e Charlie Chaplin, e forse anche Ingrid Bergman, fossero depressi quando lavoravano – è come chiedersi come faccia Joe Di Maggio a colpire la palla da baseball se è depresso. Piuttosto stupido». Qualche giorno dopo, proprio Di Maggio, il suo secondo marito, riuscì a farla uscire dal manicomio. Le aveva anche fatto avere dei fiori. Nella sua lettera, Marilyn confida di averlo chiamato a Natale per chiedergli come mai le avesse mandato dei fiori. «Perché speravo in una tua telefonata, e poi, chi altro hai al mondo?» fu la laconica risposta del campione di baseball.
Le immagini: Marilyn Monroe mentre lascia l’ospedale psichiatrico e un fotogramma dal film per la tv statunitense (in due puntate) The Secret Life of Marilyn Monroe (2015, regia di Laurie Collyer).
Gabriele Bonfiglioli
(LucidaMente, anno XI, n. 127, luglio 2016)