Frammenti visionari di racconti, violenza, degrado, putridume: questi alcuni degli ingredienti dell’inclassificabile “Black Village” del narratore francese, edito in Italia dalla romana Sixtysixthandsecond
«Non esisteva più niente, se non un paesaggio per sempre notturno e fuligginoso, sentieri polverosi lungo i quali ogni viandante affondava fino alla cintola, un’aria irrespirabile, resti senza nome sotto un cielo che non mutava, che non sarebbe più mutato, un cielo senza luna, senza stelle e senza sole».
Il brano appena citato è uno di quelli che maggiormente può rendere l’idea dell’ambientazione distopica, visionaria, angosciante, nella quale si colloca Black Village (tradotto e pubblicato in Italia da 66thand2nd, Roma 2019, pp. 224, € 16,00). Un originalissimo libro, uscito in Francia nel 2017, del settantenne narratore francese di origini russe Antoine Volodine. In effetti, in copertina e nel frontespizio troverete il nome di Lutz Bassmann, perché lo scrittore usa per quasi ogni sua opera uno pseudonimo diverso. E una piccola annotazione merita anche la strana denominazione della bella ed elegante casa editrice 66thand2nd, fondata a Roma nel 2008: Sixtysixthandsecond è l’incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la Seconda Avenue, a Manhattan, dove gli editori hanno concepito il proprio progetto. Chiariti due “misteri” attorno Black Village, restano quelli maggiori. È un romanzo? Di che genere? Quali sono i personaggi? Cosa racconta? Dove e quando è ambientato?
Tali domande sono di facile risposta per quasi tutta la narrativa, ma non per quella di Volodine. Nessun genere, nessuna categoria, gli si confà, tanto che egli stesso ha dovuto inventare una nuova denominazione, «letteratura post-esotista», che, comunque, appare una semplice etichetta. Un misto di fantascienza post apocalittica, distopia sovietica, onirismo/incubo da psicanalisi, avventura, spy story, ibride mostruosità horror… L’aspetto importante è che gli scritti di Volodine non solo hanno un loro stile personale e inconfondibile, ma sono di alto livello stilistico ed estetico, con una modalità narrativa davvero sorprendente e innovativa. L’opera post apocalittica che maggiormente gli si può accostare come valore artistico è La strada di Cormac McCarthy; ma, oltre a essere diversa, probabilmente la produzione del franco-russo è superiore, più ricca di tematiche e stimoli e di novità narratologiche e stilistiche. Cinematograficamente potremmo anche pensare a un Blade Runner, ma ambientato anche fuori dalle metropoli, in campagne e villaggi desolati, o a qualche film di David Lynch (luci basse, lampadine che sfrigolano, personaggi stranianti).
Le tematiche, gli spunti, gli abissi di Black Village sono infiniti. Cominciamo dalla modalità (a)narrativa. Come in un novello Decameron o, meglio, in postmoderni The Canterbury Tales, tre viandanti (due uomini e una donna: Goodmann, Tassili e Myriam) camminano nel buio di un non-luogo indefinibile: una sorta di premorte. Non solo è un non-luogo, ma è anche un non-tempo. Per avere la possibilità di ricordare qualcosa in questa atmosfera sospesa e imprecisa, decidono di narrarsi delle storie, anzi degli «zaconti». Senonché il tentativo fallisce: dopo l’inizio dei racconti, non ci si rammenta più niente. Proprio la trentina di incipit (circa cinque-sei pagine l’uno) all’interno dell’oscura cornice costituisce la sostanza di Black Village. Pertanto, abbiamo già rintracciato tre tematiche e modalità stilistiche principali: il buio; l’indeterminatezza angosciante di tempo e luogo; la sperimentazione narrativa consistente in interessantissime storie di cui sappiamo solo l’inizio e che sono interrotte sul più bello, con una parola sospesa.
Si tratta di leit-motiv, sperimentazioni e stimoli notevolissimi per il lettore e il critico letterario. L’oscurità: «Il buio assoluto era così denso che s’insinuava sotto le palpebre con un rumor di suzione, come quando si cerca di estrarre il piede da una pozza di bitume»; «Non appena ci si allontanava dai coni gialli che brillavano sull’erba e sull’asfalto, la notte era densa come l’inchiostro». Come funziona il tempo nella dimensione in cui si muovono i tre narratori? Ecco: «Scorreva a blocchi incoerenti, […] funzionava a intermittenza e, soprattutto, non si concludeva. […] l’assenza di continuità, […] brutali cesure, […] incompiutezza di qualsiasi momento, […] il tempo non era più misurabile, non scorreva più, s’interrompeva o procedeva a singhiozzo in maniera irrazionale». In tale quadro tematico-stilistico si inseriscono molti altri motivi specifici e particolari. Innanzi tutto, l’onirismo, vicino più all’incubo che al sogno: «Un uomo la montava, le allargava le cosce con brutalità e la penetrava senza chiedere il suo parere, poi si tirava fuori innaffiandola con dello sperma oscenamente nero».
A fare da sfondo ai racconti sono il disfacimento della tecnologia e delle produzioni industriali («Nel porto, i sottomarini sventrati sputavano fuori senza fretta i loro invisibili agenti inquinanti, certi di poter continuare a farlo per una ventina di secoli ancora, e con la medesima intensità. Il tempo era della loro, anche se l’accavallarsi regolare di piccole onde aveva dato inizio a un lungo, elaborato processo di disintegrazione. Le navi avrebbero finito per sfasciarsi, i relitti arrugginiti sarebbero sprofondati nella melma, a differenza del combustibile che sarebbe rimasto invece in ottima salute e come inesauribile»); così come la rovina delle miserabili architetture e dell’urbanistica («Dall’altra parte del fossato iniziava una distesa che arrivava fino all’orizzonte, una serie di edifici in muratura o in legno di cui soltanto alcuni avevano più di un piano. La colonia penale somigliava a una sconfinata città, assai grigia e piatta»). Uno scenario non molto lontano, peraltro, dalle condizioni di molti territori dell’Unione sovietica nella sua disgregazione.
Dappertutto sporcizia, putridume, tenebre, fetori, organico, in un contesto di squallore, decadenza, distruzione, con persone, ambienti e natura degradati. Come nel cinema mistico di Andrej Tarkovskij, acqua e umidità sono spesso la cifra di una simbologia senza soluzione. Ogni zaconto si apre con un mistero che non conosceremo mai: indecifrabili presenze, complotti, spionaggio, duelli, rese dei conti… Intorno una società miserabile e violenta: pogrom, popolazioni e minoranze perseguitati, mescolanza infelice di etnie e popoli, processi politici, esecuzioni… Ancora più inquietanti sono le presenze di esseri mutanti, ibridi, uccelli-uomini. Tutto è straniante, con scene surreali come quella dei treni che corrono affiancati: «I nostri due treni procedevano d’amore e d’accordo, separati da una distanza risibile, poco più di un metro e cinquanta. […] I treni erano immobili l’uno contro l’altro, legati da chissà quale mistero e dalla preoccupazione di rispettare scrupolosamente la stessa velocità. […] La situazione, se tale può essere definita, continuò indefinitivamente. Poi lo stridio dei freni lacerò lo spazio e i due treni rallentarono allo stesso modo, senza il minimo divario, e, quando rimanemmo immobili, ciò che vedevamo dall’altra parte non era mutato in alcun modo». In conclusione, il lettore amerà o odierà Black Village. Ne sarà affascinato o disgustato. In ogni caso, provate a leggerlo: vi troverete di fronte comunque a qualcosa di veramente inedito.
Le immagini: a uso gratuito da Pixabay.com.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XV, n. 175, luglio 2020)