Le fotografie dell’artista brasiliano settantaseienne sono un messaggio a tutta l’umanità
Appena un anno fa veniva allestita a Reggio Emilia una delle ultime mostre di Sebastião Ribeiro Salgado Júnior in cui erano riunite 100 fotografie nell’esposizione intitolata Africa. In questo mese non ricordiamo solamente l’evento emiliano che ha ospitato i lavori dell’artista brasiliano, ma anche che l’8 febbraio 2020 egli festeggia ben 76 anni. Cogliamo, perciò, l’occasione per celebrare le sue opere ormai già consacrate da numerosi riconoscimenti collezionati nel tempo. Tempo…
Nel corso della sua esistenza Salgado ne ha dedicato moltissimo a progetti e reportages, avventurandosi per anni e anni in giro per il mondo. La fotografia, tuttavia, non rientrava nei suoi piani iniziali. Nato nel 1944 ad Aimóres (Brasile), all’età di 15 anni il futuro artista parte dalla fazenda di famiglia verso la città di Vitória per proseguire gli studi. Qui incontra Lélia Wanick, che è tuttora la sua compagna di vita, e proprio grazie a lei scopre, nel 1970, l’amore per lo scatto. Prima, però, procediamo con ordine: il nostro reporter si forma presso la facoltà di Economia. Successivamente, nel 1969, a causa di un clima ostile nei lori confronti in quanto militanti tra le file della sinistra in un contesto dittatoriale militarizzato, parte per Parigi con la consorte. È proprio in Francia che Lélia necessita di acquistare una macchina fotografica per i suoi studi in Architettura, ma è Sebastião a interessarsi a tale universo. Per trasformare la passione in professione ci vuole qualche spinta in più: l’Africa. Viene portato per la prima volta in queste terre da un impiego ottenuto a Londra presso l’Organizzazione mondiale del caffè.
Diverse missioni lo conducono a visitare il Ruanda, il Burundi, il Kenya, l’Uganda e durante i viaggi lui non manca mai di immortalare ciò che osserva. Si rende conto che le foto scattate lo gratificano più di qualsiasi relazione da redigere e così, abbandonando una promettente carriera commerciale, decide di diventare un fotografo freelance. Il continente nero funge, quindi, da propulsore nell’intraprendere il nuovo percorso e non solo. Leggendo la biografia Dalla mia terra alla terra (Contrasto, pp. 175, € 19,90), guardando il documentario Il sale della terra di Wim Wenders e osservando i suoi numerosi reportages, si nota immediatamente la forte presenza dell’Africa, e in particolare del Ruanda. Lo stesso Salgado confessa: «È curioso come certe regioni del mondo segnino profondamente ciascuno di noi […] sono andato e tornato più volte in Ruanda […] buona parte delle mie storie si è svolta laggiù». Da economista vi ha cercato le terre fertili del Kivu, da fotografo ci è tornato prima per La mano dell’uomo. Workers, poi sia per Exodus. In cammino sia per Genesi (l’ultima volta con l’obiettivo puntato sui vulcani in eruzione e i gorilla).
Le raccolte sopracitate sono probabilmente le tre più conosciute e rappresentano i manifesti di tematiche sempre trattate dall’artista: il lavoro, le migrazioni e l’ambiente. Nel primo ambito, si è concentrato sul lavoro manuale, quel processo di creazione che con l’avvento delle nuove tecnologie sta progressivamente scomparendo. Ha visitato miniere d’oro e di carbone, cantieri navali, piantagioni e industrie, constatando che erano la mansione e il prodotto a fabbricare l’uomo: chi svolgeva lo stesso impiego si somigliava, anche se viveva in luoghi geograficamente distanti. Nel secondo, per testimoniare gli esodi che affliggono il mondo, ha girato circa 40 Paesi. Le immagini di intere popolazioni che migrano a causa di guerre civili, innescate da potenze esterne, sono agghiaccianti. Uno scenario che lo ha profondamente scosso e ha messo a dura prova la sua voglia di continuare a lavorare. Nell’ultimo, ha cercato l’origine di tutto recandosi in quei luoghi ancora incontaminati dall’uomo. Genesi richiama l’umanità a un riavvicinamento con la natura perché «per via dell’urbanizzazione siamo diventati animali molto complicati», estranei al pianeta e a noi stessi, ma il rimedio a questo problema passa attraverso ciò che il nostro eroe brasileiro chiama “informazione”.
In conclusione, potremmo definire Salgado un documentarista di trasformazioni sociali, economiche, politiche e ambientali, ma egli tiene a specificare che, sebbene alcuni lo considerino un fotogiornalista o un militante, questo «non è vero»; l’unica verità è l’amore per la fotografia, la quale tra l’altro «non è una professione […] è un’esigenza». L’esigenza di servire la comunità, di farle da specchio per prendere coscienza delle vicende che affliggono il nostro tempo, frutto di quella discutibile società dei consumi di cui tutti facciamo parte. Fotografi e giornalisti non possono esimersi dall’informare e nessuno può sentirsi estraneo a queste denunce.
Le immagini: la locandina del documentario Il sale della Terra e foto di Sebastião Salgado tratte da Africa, i cui soggetti sono: la raccolta del tè in una piantagione del Ruanda (1991); un gorilla di montagna del medesimo Paese africano (2004); orfani e rifugiati ruandesi (1995).
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XV, n. 170, febbraio 2020)