Il dottor Frédéric Chaussoy e il caso di Vincent Humbert: il nostro progetto per una prima traduzione del libro in Italia
Vincent Humbert era francese, un giovane come tanti, pompiere volontario, pieno di vita. Non aveva ancora compiuto vent’anni quando, il 24 settembre 2000, rimase vittima di un incidente stradale. Dopo nove mesi in coma si “risvegliò” tetraplegico, cieco e muto, ma con intatte le sue capacità intellettive. Riusciva a muovere soltanto il pollice della mano destra; nello stesso tempo, era costantemente dolorante. Ad assisterlo, la madre Marie. Sei mesi dopo, non vi era più alcuna speranza di miglioramento delle condizioni del ragazzo e i dolori suoi e la sofferenza che di riflesso il proprio stato provocava sulla madre erano divenuti insostenibili per entrambi.
Grazie all’aiuto della madre stessa e di un’animatrice dell’ospedale, Vincent riuscì a instaurare un sistema di comunicazione attraverso la pressione del pollice.
Successivamente, con l’aiuto di un giornalista, scrisse addirittura un libro: Io vi chiedo il diritto di morire, nel quale raccontò come si fosse ritenuto morto il giorno del suo incidente; come, da quel momento, lo costringessero a vivere, senza sapere per chi, perché.
Una lettera a Chirac, una risposta ipocrita e paternalista – Finché un giorno chiese alla madre di aiutarlo a morire. Davanti al rifiuto di quest’ultima, dettò all’animatrice, che lo andava a trovare più volte alla settimana, una lettera nella quale chiedeva la stessa cosa alla propria zia. Ma lei pure rifiutò. Decise così di scrivere al presidente Jacques Chirac, sua ultima risorsa, invocando la “grazia” di poter porre fine ai suoi giorni e chiedendo per sé il diritto all’eutanasia: “Lei può concedere il diritto della grazia, io Le chiedo il diritto di morire”. Dopo una prima risposta di un collaboratore dell’Eliseo, fu soltanto sotto le pressioni dei media che finalmente Chirac gli rispose affermando che doveva “riprendere gusto alla vita […] un ordine da parte del presidente della Repubblica”. Allora, grazie a Marie Humbert, la madre di Vincent, in Francia scoppiò “l’affaire Humbert“.
Una madre straordinaria – Marie ha dato da sempre prova di un amore immenso e di un coraggio altrettanto sconfinato nei confronti di Vincent. Per mesi, ha sperato che egli si risvegliasse dal coma nel quale era sprofondato. Per poterlo accudire, ha lasciato tutto e tutti: il suo appartamento e il suo posto di impiegata di banca, in Normandia. Ha affittato un monolocale, a Berck-sur-mer (nel Nord della Francia), di fronte al centro medico dove era ricoverato il figlio e, per mesi, tutti i giorni, si è recata al suo capezzale. Tutti i giorni, gli ha fatto ascoltare musica, voci registrate, voci conosciute da Vincent, sperando sempre nel suo risveglio. Per guadagnarsi da vivere, faceva delle pulizie, degli extra nei ristoranti, al di fuori degli orari di visita.
La consapevole richiesta di eutanasia – Vincent, dopo nove mesi di coma, si svegliò; però, alla speranza seguì lo sconforto: non sarebbe mai migliorato. Con pazienza, per poter comunicare con suo figlio, ma anche per permettere a lui di esprimersi, Marie recitò l’alfabeto ed egli, con la pressione del pollice rimasto “valido”, indicò la lettera di cui voleva servirsi. E’ così che Vincent le chiese di aiutarlo a morire. Lei, in un primo momento, rifiutò. Ma, davanti alla determinazione di Vincent, si arrese. Lo aiutò a formulare per iscritto la sua richiesta di essere aiutato a morire. Vincent non ricevette alcuna risposta dal presidente Chirac. Marie Humbert decise allora di divulgare la lettera: ne parlò a un giornalista, lo scritto venne diffuso, il caso Humbert esplose. La Francia intera cominciò a discuterne.
Sola con la propria disperazione e una decisa risoluzione – Marie sperò tanto che qualcuno l’avrebbe aiutata. Si dovette arrendere. Si informò per sapere se in altri paesi più “civili” pazienti nelle condizioni del proprio figlio venissero aiutati a morire. Comunque, Vincent non si poteva muovere. Allora, lei decise che lei stessa l’avrebbe aiutato. Non nascose le sue intenzioni, lo disse ad alta voce, convocò i media; tutti lo seppero, ma venne lasciata sola: sola col proprio dolore, sola col proprio progetto disperato. Il 24 settembre 2003, terzo anniversario dell’incidente di suo figlio, passò all’atto: con un gesto d’amore estremo, iniettò barbiturici nel sondino che serviva ad alimentare il ragazzo. Tutti se l’aspettavano, ma nessuno impedì che ciò accadesse. Vincent entrò in un coma profondo.
Il doppio intervento di un medico “zelante” – Un medico di servizio se ne avvide; venne richiamato il dottor Frédéric Chaussoy, direttore della rianimazione del Centro elioterapico marino presso il quale era ricoverato Vincent. Chaussoy decise di intubare il ragazzo per salvarlo. E, infatti, lo “salvò” per la seconda volta. Ma, come ha poi scritto, “mettere tutto in atto per salvare la vita non sempre salva una vita”. Già senza i rianimatori, Vincent non sarebbe sopravvissuto al suo incidente. Questa volta, la famiglia, impazzita dalla rabbia, si scontrò con Chaussoy: per non aver rispettato la volontà di Vincent che, da anni, aveva profuso ogni propria residua energia al fine di ottenere il diritto di decidere personalmente cosa fare del resto della sua esistenza, di non soffrire più, di poter morire. Le autorità intervennero, la madre di Vincent fu messa in stato di fermo. Ma, ecco che, dopo un attento studio della cartella clinica e una decisione presa con tutta la sua équipe, il 26 settembre 2003 il dottor Chaussoy aiutò Vincent a “lasciare la sua carcassa di dolore”. Decise di interrompere l’assistenza rianimatoria che lo manteneva in vita e, con un’iniezione, pose un termine alle sue sofferenze. Vincent morì. Da quel momento, però, anche per il medico iniziò un lunghissimo calvario.
La delibera del Parlamento francese – L'”affaire Vincent Humbert” aveva improvvisamente messo a nudo il problema dell’eutanasia, stimolando un dibattito etico e legislativo tuttora vivissimo. Chaussoy e Marie Humbert vennero accusati di omicidio; in Francia, non si parlò d’altro. Il dibattito s’infiammò. L’Ordine dei medici si schierò subito a difesa del medico rianimatore, migliaia di colleghi firmarono una petizione a suo favore. Egli aveva avuto il coraggio di dire e di agire alla luce del sole, dopo avere deliberato con tutta la sua équipe, ciò che avrebbe potuto fare da solo, senza riferirne a nessuno. Nell’aprile 2005, il Parlamento francese deliberò definitivamente accordando il diritto ai medici “di lasciare morire”, di permettere l’interruzione di un trattamento o di rifiutare l’accanimento terapeutico, senza, peraltro, legalizzare l’eutanasia. Quel testo di legge approvato dal Parlamento francese era nato dall’emozione suscitata dalla morte di Humbert.
L’assoluzione e la lotta civile – Il 27 febbraio 2006, dopo due anni e mezzo di calvario per il medico e la madre di Vincent, giunse la sentenza del tribunale: il fatto non sussisteva. Venne così rispettato un desiderio di Vincent, che chiedeva che non venisse giudicata sua madre, qualora avesse deciso di assecondare il proprio desiderio, dato che questo gesto sarebbe stato, secondo lui, la più bella prova d’amore da parte di un genitore. Aveva chiesto che le venisse concesso di vivere in pace quella “parvenza di vita che le sarebbe rimasta”. Marie Humbert ha continuato e continua tuttora la lotta iniziata da Vincent; denunciando l’ipocrisia e l’inganno rappresentati dalla legge sul “fin di vita” votata nel 2005. Con l’associazione Faut qu’on s’active, organizza dibattiti, raccoglie firme, sperando di riuscire a organizzare un referendum in vista della promulgazione della “Legge Vincent Humbert”, una legge che dovrebbe permettere di iscrivere nel Codice penale una “eccezione di eutanasia”, rigidamente delimitata.
Un progetto di legge – Sia lei, sia il dottor Chaussoy concordano su un punto: con la legge attuale, niente sarebbe cambiato per Vincent. Invece, con il “Progetto di legge Vincent Humbert”, sperano di ottenere che venga concesso, in casi ben precisi, un aiuto “attivo” per liberare il paziente; ma anche la depenalizzazione di tale gesto, in opposizione all’odierna semplice autorizzazione a “lasciare morire” il malato. Si propongono di rimettere al centro del dibattito il paziente stesso. Se questi lo desidera, deve avere la libertà di “partire tranquillamente con un’iniezione, circondato dai suoi cari”, non già staccandolo dalle macchine che lo mantengono in vita, e lasciandolo morire di fame attraverso la sospensione dell’alimentazione artificiale, sia pur con l’aiuto di sedativi, come imposto dall’unica soluzione prospettata attualmente.
Un successo editoriale – Da questa tragica esperienza è nato il libro di Chaussoy Je ne suis pas un assassin, “Non sono un assassino”. E’ una testimonianza sconvolgente, la testimonianza di un medico, ma, innanzi tutto, dell’uomo che c’è in lui. E’ nello stesso tempo marito, padre, figlio, collega: la sua vita intera ne esce sconvolta. Lui che era solito precipitarsi per salvare le vite, non riesce a controllare la macchina che si è messa in moto contro di lui. Questo libro, pubblicato dalla Oh! Éditions, ha conosciuto in Francia un enorme successo. Scritto con un linguaggio semplice, comprensibile da parte di tutti, è stato ripreso da altre due case editrici e ha venduto più di 100.000 esemplari.
La traduzione italiana – All’uscita del libro in Francia, la Oh! lo ha proposto a tre grandi case editrici italiane. Lo hanno rifiutato. Dal momento della sua traduzione da parte mia, è passato più di un anno prima che, finalmente, qualcuno si degnasse di accordarvi un qualche interesse. Solo tre editori hanno avuto la cortesia di rispondere; negativamente, ma hanno risposto. Gli altri? Silenzio totale. Poi è arrivata la risposta dall’associazione per il testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia Libera Uscita e, attraverso essa, da Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice di Bologna. Insieme hanno acquisito i diritti per poterlo pubblicare in Italia. Speriamo che questo libro riesca a scuotere le tante coscienze che delegano sempre ad altri decisioni che riguardano l’intera società. La Costituzione italiana afferma che “La libertà personale è inviolabile” (art. 13) e che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32): purtroppo il caso Welby, e altri analoghi, ci insegnano che così non è, e l’affaire Humbert potrebbe essere di grande ammaestramento per molti. Di seguito riportiamo, in anteprima, un brano del libro.
Un brano dal libro – “Vincent e tutti gli altri amano la vita, a tal punto che reclamano con forza che non assomigli alla loro. Per mesi, per anni.
“Amateli”… Questo è quello che ordiniamo ai loro cari che accompagnano questa sofferenza senza fine, visto che non abbiamo altro da suggerire. Come se le famiglie, gli amici, avessero bisogno che uno suggerisse loro quell’idea. Come se questi pazienti volessero farla finita a causa della mancanza d’amore, mentre, con ogni probabilità, a ciascuno di loro è accaduto proprio il contrario.
E se invece fosse necessario essere dotati di un amore enorme per trovare il coraggio di prendere la decisione di cessare di vivere male? E sapere fino a che punto la vita possa essere bella per rifiutare che lo sia così poco? Vincent è morto, lasciandoci un’eredità che non possiamo non utilizzare.
Non possiamo eternamente voltare le spalle e uscire da quelle camere dicendo: “abbia pazienza” e “amateli”…
Sono medico, e sono stato trascinato in tribunale per aver accompagnato Vincent Humbert, dopo il gesto d’amore estremo di sua madre; sono un uomo libero, e responsabile della sorte procurata a tutti i Vincent che urlano in silenzio, e molto spesso nel segreto condiviso dalle loro famiglie disarmate, che non vogliono vivere in quelle condizioni.
Credo sia arrivato il momento in cui non dobbiamo più avere paura delle parole. Si tratta, in queste situazioni del tutto eccezionali, di autorizzare un aiuto rigidamente controllato. Ognuno di noi può porre fine ai propri giorni, se la vita gli sembra insopportabile. Ma Vincent non aveva la capacità fisica di attuare liberamente tale atto, mentre, appunto, aveva tutte le ragioni per trovare la sua vita insopportabile…”.
Christiane Krzyzyk
(LucidaMente, anno II, n. 18, giugno 2007)
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